Saluti e baci dal métro
Sono seduto sullo strapontin, uno di quei seggiolini ribaltabili collocati alle estremità e al centro dei vagoni e che servono, almeno qui a Parigi, a dividere il mondo in due gruppi: quelli che, in caso di affluenza esagerata, si alzano in piedi e lasciano posto agli altri, senza stare troppo a pensarci (la maggioranza), e quelli che, in caso di affluenza esagerata, rimangono dove sono fingendo indifferenza (i turisti italiani) (“Giò, dici che devo alzarmi?” “Ma quale. Casomai dicci che non capisci e che sei straniera”). Io, sul métro di Parigi, mi siedo sempre sugli strapontin, uno perché i sedili a quattro sono stati concepiti, evidentemente, usando come tester dei bambini novenni rachitici e non degli adulti in salute con gambe a misura standard (molti dei quali però non si fanno problemi, e lo spazio a Parigi, si sa, non è mai un problema, e quindi eccoli, ostinati, a piegare le ginocchia al petto, serrando le natiche a più non posso, con quella postura impettita come se finalmente avessero trovato il posto migliore per tenere al caldo la baguette prima di tornare a casa). E due perché è nei pressi degli strapontin che accadono le cose.
All’altezza di Quai de la gare salgono due uomini, la trentina, barba sfatta, colori scuri. Potrebbero essere fratelli, o anche gente che ha deciso di mettersi in società cinque minuti fa. Uno ha la panza, indossa i jeans, un giubbottazzo imbottito e, sotto, un maglione diciamo bianco. L’altro, più magro e più basso, i jeans, un giubbottino di similpelle e, sotto, una felpa in pile, con un disegno multicolor astratto al centro, da cui partono dei raggi fucsia degradanti ai bordi. I due uomini trascinano, ciascuno con la mano destra, un amplificatore. Di quelli portatili. Con le rotelle. Ma di dimensioni diverse. Il tipo più grosso porta l’amplificatore più grosso, il tipo più piccolo porta l’amplificatore più piccolo.
Sulla superficie superiore dell’amplificatore più grosso è incollato un piccolo telecomando con i tasti appena a rilievo. Un’aggiunta posticcia: sul lato destro, di un paio di millimetri, sporge una striscetta bianca. Resisto alla tentazione di allungare un dito e verificare, ma mi sento di sbilanciarmi: scotch biadesivo. Sulla parte frontale dell’amplificatore è legata (con un cavo elastico in tessuto che mi fa pensare a) a James Franco in quel film di Danny Boyle e b) ai portachiavi scooby-doo che facevo da ragazzino) quella che ha tutta l’aria di essere un’autoradio. Dal frontalino, dominato dallo schermo digitale, sporge una piccola penna usb. Sulla parte laterale destra, agganciato allo stesso cavo elastico in tessuto, parte un altro cavo elastico in tessuto a cui è legato, stretto stretto, un marsupio, di quelli che portavo da ragazzino e in cui tenevo gli scooby-doo. Il marsupio è chiuso. Tra il marsupio e la parete esterna dell’amplificatore c’è una fessuretta (che mi fa ripensare al film di Danny Boyle, precisamente alle intercapedini assassine), riempita, al centro, da una busta di plastica rinforzata tipo quelle da due euro che compri al carrefour, in alternativa ai normali sacchetti di plastica che si sfondano se ci metti anche solo due bottiglie di succo di mela. La busta di plastica rinforzata è sistemata in verticale, e un lembo sporge dal limite inferiore dell’amplificatore (ecco quel suono tipo scopa di paglia che sentivo prima). Sulla parte laterale sinistra, assicurato da un complesso gioco di nodi che sfrutta il Cavo Elastico Principale, spicca un bicchiere di cartone, tipo quelli à emporter di Starbucks (ma sopra non c’è alcun logo), la cui superficie esterna è stata ricoperta da almeno due strati di scotch trasparente, probabilmente per renderlo più resistente agli urti del métro. Il bicchiere contiene delle monetine, non molte, giusto il numero necessario a far capire immediatamente la destinazione d’uso e il senso dello spettacolo che sta per debuttare in scena. L’amplificatore più piccolo, pochi centimetri lo separano dal mio ginocchio destro, presenta le stesse caratteristiche, con due differenze: una scheda di memoria al posto della penna usb, e l’assenza del marsupio, compensata però da una busta di plastica più grossa, riempita da qualcosa di più voluminoso. La busta è chiusa e le mie ipotesi risolutive mi conducono ogni volta in un vicolo cieco. Meglio non pensarci più.
Sul petto di entrambi gli uomini troneggia un accordéon. Con i bottoni tondi, le bretelle e tutto il resto. All’accordéon del tizio grosso è appeso un microfono che penzola a testa in giù, in quella che mi sembra la rappresentazione più fedele degli umori della gente di questo vagone (flash forward: il microfono non verrà usato, fa solo scena).
Si chiudono le porte, il métro riparte, i due uomini si scambiano un cenno, tipo: “Vai”. Il tipo più piccolo si china leggermente in avanti, adesso c’è un vero silenzio, di attesa (anche se ogni persona qui presente, interrogata dalla gendarmerie, negherebbe l’esistenza dei due, anche di fronte all’evidenza: “Ah bon?”), e schiaccia un pulsante del proprio telecomando. Parte una musica familiare che definirei, dopo quindici anni passati in metropoli transalpine a se stesse, balcanica. O gitana. O gitano-balcanica, vai a sapere: shazam sarà pure la migliore invenzione degli ultimi due secoli, ma a volte non serve a un cazzo, specie quando serve davvero. Musica, ovvero una base registrata (quando? Dove? Da chi? Quanti erano?) (è lo stesso cd masterizzato che passa di frontiera in frontiera?) (o c’è un database gigante centralizzato da cui ognuno scarica a piacimento) (in questo caso, a chi vanno i diritti?) (ci siamo mai occupati a sufficienza di questi temi?). Dopo qualche secondo i due si mettono a suonare l’accordéon. O almeno credo. Sono seduto vicino-vicino, respiro la loro stessa aria, li sto fissando da lunghe frazioni di secondo, eppure non sono in grado di stabilire con certezza se stiano suonando per davvero o se stiano pigiando tasti a caso affidando il grosso della faccenda alla base registrata.
Sul più bello di questa, vorrei dire struggente ma non è questo il caso, esibizione, e nel bel mezzo di altri miei interrogativi ossessivi (chi avrà ideato il congegno di cavi, cavetti e marsupio? È stata un’intuizione improvvisa? O l’esito di sovrapposizioni progressive, per prove ed errori?), ecco un signore sulla settantina, seduto nei posti centrali, che si alza in piedi, si scambia un messaggio d’incitamento reciproco con la sua presumibile moglie (movimento a valle di un discorso evidentemente covato e riscaldato nel tragitto che ci ha portato fin qui: nel frattempo siamo ad altezza Corvisart), guarda in direzione dei due uomini e dice qualcosa. Qualcosa. Chiaramente muove la bocca, ma nessuno, anche quelli che fingono di guardare lo smartphone, e in realtà hanno percepito benissimo quello che sta succedendo, o che sta per succedere, ne distingue il senso. La musica gitano-balcanica è troppo alta, quindi i due uomini – e io – ci sporgiamo leggermente in avanti (loro, a furia di metro e vagoni e sali e scendi devono ormai avere i sensi sviluppatissimi, io invece semplicemente desideroso di avere una conferma alle mie ipotesi, e ce l’avrò). Il vecchietto ripete, sillabando, la frase di prima, e noi – almeno, io – riusciamo a scorgere il labiale, decifrando una cosa del tipo: “Scusi giovane uomo, potrebbe abbassare il volume della musica, per piacere?”
Segue un momento di sbigottimento, tipico di quando la molle routine dei luoghi ad alta densità di affollamento viene attisata da un evento che spariglia: dai, chi ha davvero non dico il coraggio ma proprio la voglia di mettersi a discutere con due tizi che suonano musica gitano-balcanica sul métro? Per una questione del genere, poi. Voglio dire, tra qualche fermata saremo tutti scesi. E poi tutti a casa. Ma c’è un altro motivo di sbigottimento, e credo di esprimerlo solamente io, che ancora non mi abituo a certe cose, e mai forse lo farò, io e la mia faccia a punto esclamativo. Il vecchio, se proprio fosse stato infastidito, e se questo fastidio fosse stato un motivo davvero sufficiente per vincere l’inerzia del momento, e alzarsi in piedi, e attirare l’attenzione di tutto il vagone che non aspettava altro (avere finalmente qualcosa da raccontare stasera davanti alla cena post-scongelata di Picard), ecco, avrebbe potuto URLARE, che ne so:
EHI TU TESTA DI CAZZO ABBASSA QUELLA MERDA
o
SE NON LA FINISCI TI SPACCO IN MILLE PEZZI QUELLA COSA
E POI PASSO ALLA TUA FACCIA DA CULO
o un evergreen tipo
LA FRANCIA AI FRANCESI
E invece. Il vecchio, non una ma due volte, con la stessa flemma con cui avrebbe potuto mandare una lettera di protesta alla Mairie del quattordicesimo per lo stato di degrado di una specifica aiuola nel tratto del Boulevard Montparnasse compreso tra il parrucchiere Franck Provost e la pizzeria Bella Navona (lettera ovviamente scritta a mano, e spedita in una busta comprata da Gibert Joseph), lui si rivolge ai diffusori ambulanti di musica gitano-balcanica chiedendo: scusi, per piacere.
Il tizio piccolo (l’altro, quello grosso, si è rimesso di spalle dopo la prima interpellanza e ora continua a prodursi nell’imitazione del musicista-che-ci-crede), fa un vago cenno di assenso, poi preme un bottone del telecomando e l’intensità della musica, invece di abbassarsi, si alza. Ancora di più. Non è chiaro se si tratti di una rappresaglia (“Cara, te lo dicevo io che forse non era il caso di mettersi a polemizzare con questi signori”) o di un fatale errore: bisognerebbe entrare nella sua testa, o lasciarsi andare a un classico processo alle intenzioni. Sta di fatto che la musica rimane così, A VOLUME ALTISSIMO. Il vecchio lascia un paio di secondi il proprio sguardo appoggiato sull’assurdità del momento, e poi fa quello che ha già deciso di fare realizzando il non-lieto-fine del proprio intervento, come da manuale della buona educazione impartitagli da mille generazioni franco-francesi a cascata, e come farebbe qualsiasi altro parigino dopo aver fallito una cosa a cui teneva tantissimo: si risiede. Come se nulla fosse. Come se sua moglie, ormai è chiaro dalle occhiatacce che lei gli indirizza, non lo avesse mai spinto a fare questa cosa, come se i due tizi non fossero mai saliti sul vagone, come se la questione del volume eccessivo della musica gitano-balcanica sul métro parigino, da problema capitale da risolvere subito, fosse ormai solo un futile motivo di momentaneo disagio: toh, mi è finito un moscerino nell’occhio.
ohhhhh!
e adesso vado a leggere il post.
Sì risiede.
Genio!
Grazie per la risata scoppiata ad alto, altissimo volume.
Non vedo l’ora di prendere la 6,domani.
Silvia: vedi che non millantavo?
Ilena: pure io
adorabile come sempre.