The Walking Dead 4×01: 30 days without an accident

In questo momento sono tre gli show più visti della tv americana, network e cable mescolati: NCIS, The Big Bang Theory e The Walking Dead. Trova l’intruso. O gli intrusi.

 

Considerando il cable. E considerando la curva che parte dal pilot della prima stagione e si issa lassù fino al risultato mostruoso del primo episodio della quarta stagione (16 milioni e spicci e 8.2 di rating), quello che sta facendo The Walking Dead, adesso negli anni dieci, non è normale. E il bello è che non è ancora finita. Pensa a tutta la gente che ha sempre snobbato ‘sti quattro zombie sfigati e prima o poi sentirà sulla propria pelle quella cosa chiamata esclusione: quanto tempo ancora posso far finta di niente?

 

 

Michonne

 

 

 

Giudicare un prodotto dai numeri che fa: sì, no, non so, non risponde. Girls ha superato solo una volta (su 20) il milione di spettatori, Treme ha segnato il suo picco negativo di 0.47 milioni proprio nel terzo season finale (not cool). D’accordo, non vale: it’s not tv, it’s Hbo. E allora parliamo di Amc, something more. Alzi la mano chi non ha provato un brivido di malessere all’esplosione pazzesca dell’audience di Breaking Bad. Qui si era in quattro gatti e si finisce in tutti: chi è tutta questa gente, che cazzo vuole?

 

Vince Gilligan dice che il merito è di Netflix, che ha sbloccato una sete, anzi una fame che gli americani covavano ma non riuscivano a scaricare. Giusto ieri Tony Hopkins (lui si firma così), ha ammesso di aver binge-watched Breaking Bad in un boccone e poi, alla fine, ha scritto una lettera a Bryan Cranston per dirgli bravo, grazie (tenerezza) (soprattutto: quello che tutti noi vorremmo fare al termine di un’abbuffata di serie tv: scrivere ai nostri heroini). Ma i motivi che si celano dietro un successo sono sempre molteplici e spesso incomprensibili.

 

The Walking Dead va in onda sul cable ma non ha niente del cable. Almeno del cable che piace a noi. Non ha la raffinatezza e lo spessore di Mad Men e Breaking Bad, non spicca per scrittura, personaggi, regia, fotografia, nomi, cose e città. Hai tre secondi: dimmi i nomi esatti di almeno cinque attori che recitano in The Walking Dead e abbinali ai personaggi. Vedi? Tipo i dischi di Alessandra Amoroso, li ascolti ma i titoli delle canzoni mica li sai. Certo, c’è Andrew Lincoln, ma la sua monoespressione “Sono un bravo cristiano, c’ho avuto i traumi e ora tengo il broncetto” potrebbe tranquillamente stare su A&E o Showtime e nessuno avrebbe niente da ridire (mica come Giancarlo Esposito o Dean Norris che li vedi in Revolution o Under the Dome e ti viene voglia di lanciare su Repubblica una petizione a sei mani con Concita de Gregorio e Saviano per “fermare quest’orrore”).

 

The Walking Dead non innova, non stupisce, non ti porta dove non sei stato mai. Grattando via gli elementi esteriori (la nobile filiazione, il tema sempre caldo degli zombie, il bisogno di comunità), rimane una serie discutibile. Ha cambiato più showrunner che set, rinunciando a ogni legittimazione autoriale e a ogni presa sul serio.  Causa o effetto non si sa, non è mai riuscita a mantenere una costanza qualitativa (episodi decisamente riusciti e altri in cui non fai che pensare alla lista della spesa che devi fare domani), bruciando molto materiale narrativo in poco tempo per poi azionare il pilota automatico del solito schema: andiamo a cercare rifornimenti, se non torniamo vuol dire che ciao, è stato bello.

 

Anche accettando che al palato semplice non gli puoi mica dare caviale, The Walking Dead continua a muoversi sapendo che tutto era già scritto nel pilot, ma nel modo più calamitoso possibile: sopravvivenza e stop. Finirà mai (yawn) questa storia? E il debutto farraginoso della quarta stagione conferma tutte le perplessità maturate in questi anni: si punta sul destino di due personaggi che non interessano a nessuno (il tempo del racconto è quello che è) e quindi anche i ricaschi sui nostri ne risultano per il momento depotenziati. Viene a mancare, come spesso in TWD, il drama, quello vero, quello che ti fa dire: ehi, in questo momento non vorrei essere con nessun altra serie del mondo. Così, alla fine di ’30 days whithout an accident’, le due cose più interessanti da conservare nel giardino dei ricordi seriali sono: il figlio di Rick che finalmente ha cambiato voce e Carol che insegna ai bambini i primi rudimenti esistenziali (quando si dice una serie educativa):

 

 

Carol

 

 

Un po’ pochino, ma quanto basta per dire, almeno per il momento: hanno ragione loro. Specie considerando che ancora non è andato in onda el Clásico Governor vs Michonne e che sotto la coperta qualcosa si muove. Coraggio, qua c’è gente che vuole cambiare idea come voi cambiate gli showrunner. 

 

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A proposito di binge-watching e abbuffate di serie tv

 

 

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