L’Italia vista da quassù: un tipo stonato canta Golden Brown degli Stranglers e questo intanto mi basta
mi proposero un altro contratto a tempo mi presi un attimo per riflettere. Sapevo che mi avrebbero pagato a 90 giorni, sapevo che dopo, chissà. Tentato dal Gran Rifiuto, chiesi pareri in giro. La risposta, po’ unanime, fu:
Tieffemme, ma tu sì pazz! Di ‘sti tempi!
Già, di ‘sti tempi.
E poi, vedrai, lavorare a Ferragosto sarà bellissimo!, Roma sarà deserta!, e! finalmente! potrai! viverla! sotto un’altra luce!
Vedrai. Ho visto. Lavorare a Ferragosto fa schifo.
E me ne fotto di ‘sti tempi. Ho faticato. Tanto e troppo. Frega davvero cazzi di ‘sti tempi. Questa non è vita. I sacrifici si fanno: se hanno senso. Altrimenti: non sono un missionario nè voglio esserlo. Volete il mio lavoro? Bene. Mettetemi nelle condizioni di lavorare dignitosamente. E pagatemi, pagatemi per tempo, datemi i miei soldi, datemeli quando mi spettano, figli di puttana.
Sono andato all’aeroporto. Ho scoperto che a Fiumicino c’è un pezzo di terminal che non avevo mai visto. Ci si arriva con una navetta tipo vagone della metro con il pilota automatico che fa una curva a gomito all’aperto mentre il sole mi sbatte in faccia. Ho alzato il naso all’insù. Il volo della Kuwait Airways era in orario. Ho sorriso. Ho ceduto a retaggi inevitabili. Ho pensato: Pensa se l’aereo cade. Pensa se sto per morire e ho tempo solo per un messaggio: a chi lo mando?
Gli italiani dei voli intercontinentali sono fidanzati e giocano alla settimana enigmistica. Oppure sono bionde, leggono Novella 2000. Oppure ancora hanno la barba e hanno il borsello di Louis Vitton. Non c’è il pulmino, si arriva direttamente dentro l’aereo. All’ingresso una hostess di verde smeraldo vestita mi accoglie in inglese arabizzante. Mi chiede il seat, mi smista a destra. Vado a destra. Uno stewart vestito tipo vigile della municipale mi chiede il seat. Mi smista a sinistra. Vado a sinistra. Apro la cappelliera. Metto lo zaino. Il tempo di un sorriso. Il tempo di uno sguardo cercato. Il tempo che me ne vado.
Sulla Kuwait Airways non si può dormire. Questo ve lo dico nel caso voi pensavate che sì. A parte i bambini e le famiglie di kuwaitiani -kuwaitiesi? kuwaitini? Boh, comunque la loro missione è: ripopolare l’universo- diciamo che si sta un po’ stretti, la gente parla, sui monitor mandano dei filmatini molto 0.0 con software tipo commodore 64. E poi, tre minuti dopo il decollo si parte con l’operazione cibo: un vassoio con scritte che boh. Non me la sento di rifiutare. Sì, grazie. Un panino incellophanato con tritato piccante e una cosa gialla. Un tris di cose fritte e smollacce: pizzette -come queste-, peperoncini semoventi, strudelini di carne rimasticata. Ha tutto un colorito tipo rosso, il cibo di questo volo. Rosso, un colore che io posso. Poi l’acqua, dentro una confezione che c’è scritto che scade a ottobre 2009. Se l’acqua scade così presto.
Facce e colori che si mischiano. Donne subalterne. Uomini baffuti. Australiani e cinesi che si baciano. Italiani pochi, europei qualcuno in più. Ah, la musica. Avete presente quelle fiere tristissime in cui ci sono gli stand degli indiani d’America con le trecce che vendono i dischi di canzoni famose riarrangiate alla maniera degli indiani d’America, cioè tutto piffero e cose a fiato? Ecco. Ad un certo punto sul volo della Kuwait Airways partono le instrumental version di: Without you di Mariah Carey, Your Song di Elton John e infine Careless Whisper di George Micheal. Pezzi sul pezzo, tra l’altro. Ah, comunque io sono nella coda dell’aereo e questo, ovviamente, è un flashback.
Alla televisione dicono che questo è e sarà l’agosto-settembre più caldo degli ultimi cinquanta anni. Ma mi sa che tutto il mondo è paese. Che poi secondo me oggi il cielo è nuvolo e tra un po’ piove. Qui la gente sembra po’ felice, figlia e sgrava che è una meraviglia e non sembra fare troppa attenzione a me. Cammino e cammino. Lungo gli argini del Gran Fiume. Qui si usa molto fare i picnic e mangiare per terra. Un plaid e via. Certo che la vita è strana. Eccomi qua. Seduto ad un tavolino, osservo una finestra aperta. Mi chiedo cosa succederebbe, adesso, se quella finestra si chiudesse. O se si aprisse quella accanto. Si avvicina un tipo con una chitarra a tracolla. Assomiglia -più sfigato- a Michael Stipe. Ha un cappello nero in testa. Nessuno si cura di lui. C’è sole e c’è caldo. Abbiamo i piedi nudi. Lui inizia a cantare. E parte ambizioso: Golden Brown degli Stranglers. Stona. Di nuovo, non importa. Bevo il cocktail, butto la testa all’indietro, socchiudo gli occhi, sorrido. Mi viene l’immagine di un mazzo di carte buttato per aria. Il ralenty, che triste espediente da quattro soldi.
Non ho paura del futuro. Non sono stato programmato per certe cose. Loro non lo capiscono, non lo sanno. Loro il futuro ce l’avevano. Io ho quello che ho, in questo momento e nelle tasche dei miei pantaloncini corti: un mazzo di chiavi, un biglietto da visita non mio, un fazzoletto rosso, una moneta po’ gialla, un cellulare che non prende. Non ho paura del futuro. Ho paura di non avere tempo. Tempo per questo e per quello. Tempo per un’abat-jour che si accende e tempo per un’abat-jour che si spegne. Tempo per prendermi quel che mi spetta.
Per questo sono qui. Per questo e non per altro.
(Post pubblicato, chi l’avrebbe mai detto, nel settembre 2009)
I post ripubblicati fanno l'effetto delle repliche di Fantastico sui canali satellitari.
Aspetto questo dadadà di te tieffemino, e di rileggere pezzi di te che non conoscevo, di quando non ti conoscevo. Molto bello pure questo Anna
*Belg: scala 1 peperoni scala 2 fantastico scala 3 per chi non li ha visti e che non c'era. fantastico mi sta bene
*2: ecco, diciamo che il senso di dadada era proprio questo