Questo giugno che non tornerà – Mentre Francesca Schiavone, a Budapest

(5 anni fa Serena Williams non vinse il Roland Garros)

– Non ho mica capito che devo fare
– You have to wait here
– Here dove?
– There, there

L’aeroporto di Budapest è grande quanto il salotto di casa dei miei. Arrivi che è tutto scritto in questo trionfo di z, di s, di parole lunghe, di accenti-addirittura-due sulla stessa vocale. La prima cosa che impari quando arrivi è: “Ferfi” vuol dire uomini, maschi o qualcosa del genere. “Noi” invece femmine, donne o qualcosa del genere. Potenza dei cessi. La seconda è che per andare dall’aeroporto in qualsiasi punto della città devi prendere il Minibus. Tu vai lì allo sportello, comunichi l’indirizzo e loro ti ci portano. Stop. Una specie di taxi privato collettivo. Ma è un servizio del Comune.

E allora me ne sto quindici minuti there, in un punto imprecisato verso il vuoto indicatomi da una graziosa signorina, a guardarmi attorno, mentre gente erasmus sbarca, si incontra, si abbraccia, gente che rivedrò due giorni dopo in vicoletti budapestini, e altri francesi, nessun italiano.

Il mio alloggio è a Moszkva Tèr. Moszkva vuol dire Mosca, tèr vuol dire Piazza: la Storia, penso, su questo pulmino senza aria condizionata che ospita me e i due marito e moglie un po’ anzianotti e l’autista che brucia rossi di semafori e prende scaffe una via l’altra, in questo morire di caldo, con la striscia pubblicitaria sul vetro che mi fraziona la visuale. Cumuli di macerie sfumano su graziosi campetti di calcio che sfumano su dolci casette con i tetti a punta come nelle fiabe. C’è un sole pallido affogato di afa, i negozi sono tutti chiusi, come quando per esempio sono le due di un sabato pomeriggio, nel più classico degli abbiocchi postprandiali, nel più classico di tutto il mondo è paese, o qualcosa del genere.

Ed eccolo qua, il figlio del meridione con gli occhi neri e il suo sapor mediorientale, come rimane spiazzato dal fuoco sulla pelle scoperta, dalla luce bianca che non basta la mano a proteggersi ma basta a non avere mète, perdere tempo nel senso di perdere il tempo, di non sapere, di non ricordare, di non voler fare altro che andare. E andare. C’è tanta gente, a Budapest. Gente che cammina cammina e cammina. Gente che in faccia non ha scritto niente. Impiegati come muratori come papponi come puttane come madri di famiglie come studentesse. Tutto si mescola, punti di vista frammentati, che fuggono da solide, occidentali aspettative. L’evidenza di tratti irregolari, sbilenchi, centrifughi: disarmonie superstiti a testimoniare decenni di sofferenze, troppe?, di centenarie battaglie perse, di catastrofi evitabili, di destini che avrebbero potuto fare ben altri giri e invece siamo arrivati qui, di fronte a questi portici, saturi di traffico, di smog, tra una vetrina di scarpe converse a 15mila fiorini, un cantiere abbandonato che sa di piscio asciugato troppo in fretta, un mendicante che si dimentica di tendere la mano, un ragazzo e una ragazza vestiti di rosso che offrono un imperdibile giro panoramico della città, un tipo in giacca e cravatta, fuori da un portone dai vetri oscurati, che prova invano a titillare bassi istinti tutti uguali con la più prevedibile delle sirene e cioè “strip strip inside”, un kebabbaro che fa anche le pizze ma anche i panini anche con l’hamburger, una farmacia chiusa, una libreria anzi due anzi tre librerie di una catena che si chiama “Libri”, e poi, infine e per il momento, questo bar, questo infimo bar con la tv accesa sul satellite.

È un flash violento, porta che sbatte, nel mezzo tra il prima di ieri, di Parigi tutta perfetta e che le devi dire a Parigi, e il dopo di Budapest, con il fiume Duna cioè il Danubio che è in piena e hanno chiuso le strade, salto con l’asta in braccio a un televisore, un’immagine, un pezzo di immagine che spacca la vetrina, avrei potuto svoltare a destra invece sono andato a sinistra, un signore teneva un cane al guinzaglio, faccio un passo avanti, la mente registra, torno indietro, è un’immagine che conosco, un campo tutto rosso con delle linee bianche rettangolari e un puntino giallo che fa un po’ di qua un po’ di là, torno indietro dunque, entro, senza dire nulla, non chiedo permesso, mi siedo:

Francesca Schiavone ha vinto il primo set ma ora sta perdendo. Mi guardo attorno, il gestore del bar è dietro il bancone, lui e i suoi baffoni all’ingiù, in fondo al locale un ragazzo coi capelli rasta legge un libro, sì, ma chissà cosa, una donna grassa fuma appoggiata sui gomiti, la televisione è accesa su Eurosport e io sono seduto su questa sedia di pelle consunta, occhi sbarrati, sta succedendo davvero?, Schiavone recupera punto su punto, la nemica, Stosur, è fragile, fragile di carattere, la t-shirt piena di caldo mi si appiccica allo schienale, il controbreak è nell’aria, posso urlare?, urlo, il tipo coi baffoni si accorge di me, solo allora e da lontano gli dico che voglio una birra, sì portami una birra adesso, pomeriggio fuori tempo e fuori tutto, portami una birra ghiacciata che tra poco potrei morire di stupore, troppe coincidenze che si sommano e si sommano e Schiavone non sbaglia un colpo e io tifo e urlo e mi pare di essere da solo, intanto siamo al 5 pari e poi 6 a 5 e poi 6 pari e io mi guardo indietro il ragazzo rasta nella stessa posizione di prima, legge come se dovesse fare solo quello per il resto dei suoi giorni, adesso anche il tipo coi baffoni si accende una sigaretta, e il tie break inizia e se fumassi chiederei al tipo di farmi fare un tiro, per favore, 3 a 2, 4 a 2, 6 a 2, e insomma finisce come doveva finire, come era scritto in questo inizio di giugno che non tornerà, finisce con l’audio della tv che si abbassa e Lady Gaga che inizia a guaire, improbabile doppiaggio per le battute di Schiavone felice che fanno ridere Mary Pierce e i francesi tutti, finisce come doveva finire, non c’era tempo per un terzo set, che la birra era finita e Budapest là fuori mi stava aspettando.

One Reply to “Questo giugno che non tornerà – Mentre Francesca Schiavone, a Budapest”

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *