L’uomo scalzo che asciugava i calzini fradici di pioggia nel bagno del cinema
Lamentarsi è facile, non costa niente, è bellissimo. Lamentarsi è l’immediata e apparente risoluzione a problemi insormontabili, è lo sfogo violento ma emolliente. Lamentarsi è lì, a portata di mano, come un buffet inesauribile cui nessuno ti ha invitato ma nemmeno ti manderà via a calci in culo. Lamentarsi ti fa sentire in buona compagnia, come quando ti passano una canna e c’è quell’attimo lusinghiero in cui ti senti onorato da tanta bontà di cuore ma pur sempre un attimo lunghissimo in cui sei sotto i riflettori e devi decidere, che magari non ne hai voglia, tutto o niente, delusione o applauso. Lamentarsi è quello che sei, viscera che puoi pure sopprimere a colpi di ‘no, grazie, sto a posto così’, ma che finisce sempre col definirti, in un modo o nell’altro. Come una marea che spinge sulla diga e dai e dai, o come quando fai il gioco di trattenere il respiro e a un certo punto, gli occhi a palla, non ce la fai più e la pressione sul petto diventa non più sostenibile. Eccoci dunque. Io mi lamento tu ti lamenti egli si lamenta noi ci lamentiamo. Ma la verità è che lamentarsi è come resistere. Non serve a niente.
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Quell’anno l’inverno arrivò i primi di ottobre e non se ne andò. Mai più. I mesi passavano, marzo aprile maggio giugno, e l’inverno era sempre là. All’inizio pensarono fosse una cosa eccezionale ma momentanea, accidente di percorso in mezzo a sogni costellati di felicità soltanto pensata, al limite ripassata. Ma poi, a un certo punto, smisero di farci caso, di parlarne ossessivamente, di farne il centro delle proprie esistenze. L’inverno, che da quel momento cambiò nome in Eterno Inverno, divenne una delle tante cose in mezzo a cui muoversi, uno sfondo neppure troppo ingombrante, fatto di lana plaid e termosifoni sempre accesi. Il cielo dell’Eterno Inverno, per esempio, iniziò a rivelare una straordinaria e prolifica capacità di adeguarsi a tutte le scale di grigio esistenti in natura e anche di più, a seconda di come gli girava la mattina. E la pioggia dell’Eterno Inverno, quella bella pioggia torrenziale tra cui surfare, quella simpatica canaglia pronta ad accoglierti ogni volta che mettevi il naso fuori di casa, anche solo per testarne la reattività, ben presto nessuno se la prese più con lei, e tutti smisero di rivolgersi ad essa come ci si rivolge a una buttana, no, quella pioggia divenne una vera compagna di vita, spettatrice delle cose più buffe che avresti mai immaginato, un giorno, di vedere.
Sto camminando su questo boulevard, diluvia, l’ombrello c’è ma potrebbe anche non esserci, sotto di me la Senna sale che è una meraviglia e tutti gli omini con i giubbetti gialli e arancioni si danno un gran daffare per misurare, annotare, segnalare, l’allerta è porpora inondazione, a un certo punto, i jeans fracichi e le scarpe pure, decido di andare al cinema, ultimamente ho degli strani scricchiolii alle articolazioni, la dottoressa dice che si chiamano reumatismi, e che devo bere il latte caldo col miele, ma io non ho la tosse!, e che ci fa, l’umidità non è una cosa che puoi spegnere come un interruttore, ma il latte non lo digerisco!, vabbè faccia come crede dioh mioh, insomma hai presente quei film che durano tre ore che ormai i film se non durano tre ore non sei un Cineasta? Ecco. I film che durano tre ore iniziano un quarto d’ora prima, con te che vai al gabinetto del cinema e fai la pipì come se quella fosse l’ultima volta in vita tua, che poi mica puoi fare alzare a metà del film tutta la fila, data la tua fissa di sceglierti sempre il posto centrale, equidistante da un lato, equidistante dall’altro.
Vicino ai lavandini, davanti all’asciugatore per le mani, quello di vecchia generazione, che devi premere il bottone e fa un ciclo rumorosissimo di cinque secondi di aria calda WROOOOM che non serve neanche ad immaginare, di asciugarti le mani, ecco c’è un uomo, la quarantina, è in piedi su una gamba sola, saltellante, mentre l’altra è piegata ad angolo retto nel vuoto, il jeans arrotolato fino al polpaccio, il piede nudo. Il cristiano evidentemente non vuole poggiare il piede per terra. Come biasimarlo: chi vorrebbe poggiare il proprio piede nudo in un bagno di un luogo pubblico (di Parigi, poi!)? In mano ha un calzino, talmente fradicio che continua a gocciolare tinc tinc. E lo sta asciugando sotto l’asciugatore coi cicli di cinque secondi. Mi fermo a guardarlo, inebetito da questa specie di coreografia, di balletto non riflettuto.
Il balletto dell’Eterno Inverno. Lui che cerca di rimanere in equilibrio per non poggiare il piede per terra, e resiste, sempre saltellando hop hop hop, il balletto dell’Eterno Inverno, poi schiaccia il bottone, poi parte il WROOOOM dell’asciugatore, e poi di nuovo: saltello bottone WROOOM, saltello bottone WROOOM, hop hop hop. Intanto tutto questo baccano attira l’attenzione di vecchi, bambini, inservienti, gente-che-passava-di-là. Hop hop hop. La porta rimane aperta e persino alcune madame e madamigelle si sporgono per sbirciare questa che, nei fatti, è una specie di installazione artistica nel bagno degli uomini, opera in pieno corso (saltello bottone WROOOM, saltello bottone WROOOOM), finché l’uomo decide che il calzino è asciutto, e sempre saltellando su una gamba, cerca di infilarselo, putain merde! (OHHHH), ma in quel momento perde l’equilibrio (OH LA VACHE!) rischia di sbattere la faccia sul lavandino del bagno del cinema, ma all’ultimo istante si arrende facendo quello che da dieci minuti sta cercando con tutte le sue forze di evitare: poggia il piede scalzo per terra. Il tempo si eternizza, lo scoppio di pianto preceduto d’un soffio dallo scoppio dell’applauso di tutti noi. Coraggio, siamo con te. NON ME LA FIDO PIU’ PIOGGIA DI MERDA SUCA. Bravo, lamentati, sfogati, ma ricorda: lamentarsi è come resistere, non serve a niente.
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Stanotte ho fatto un sogno. In questo sogno pioveva. Pioveva molto. Alla televisione dicevano che l’ultim’ora breaking news era questa: “Ci arriva adesso un comunicato ufficiale da tutte le galassie interstellari, ebbene, pare che PIOVERA’ PER SEMPRE E PIOVERA’ OVUNQUE. Quindi è inutile che scappiate, che scappiamo”. La giornalista faceva la faccia a parentesi aperta e noi con lei. Poi nel sogno c’era un salto in avanti negli anni, come in quei filmetti dove la scritta in sovrimpressione dice: Molti anni dopo…, così, coi puntini di sospensione, solo che nel sogno i puntini di sospensione non c’erano. Eravamo tutti davvero molti anni dopo, ed era vero quello che avevano detto alla televisione. Non aveva MAI spesso di piovere. C’era talmente tanta acqua piovana che ormai le strade e i palazzi erano coperti, certi palazzi per intero certi altri a metà. La gente, chi nuotava nell’acqua piovana lorda di pioggia e fango, chi piangeva, chi rideva di isteria, chi affogava, cose così.
A un certo punto (STACCO SU), ci sono io che sono all’ultimo piano di un palazzo costruito su una montagna. È una casa che non so, un palazzo che non so, forse ho traslocato in altura durante quei puntini di sospensione, forse l’istinto di sopravvivenza, chissà. Insomma sono lì affacciato da questa terrazza e vedo l’acqua che sale e continua a piovere, un attimo sembra rallentare ma poi riparte più forte, e non so che fare perché a distanza, all’orizzonte, non si vede altro che acqua e pioggia, pioggia e acqua, poi mi volto e accanto a me ora ci sono un sacco di persone, alcune le conosco, altre no, e siamo tutti lì con la faccia a perplessità come quando arriva una metro piena zeppa di gente stronza e non sai se entrare di prepotenza a catapulta infernale o aspettare l’altra metro tra cinque minuti, e intanto l’acqua sale e noi coi musi appesi: quindi finisce così ‘sta vita di merda?
Non lo so, che poi mi sono svegliato, proprio un attimo prima del muori muori generale. Ero sudato, classico di quando fai gli incubi, lo so, ma grondavo proprio come se mi fosse piovuto in testa pure durante il sogno, ho allungato un braccio, ho guardato il telefono, erano le 4h37 del mattino. Mi sono alzato, sono andato alla finestra della cucina e mi sono affacciato: stava piovendo.
io continuo ad amarti.
leggendo leggendo mi stavano spuntando le branchie
ciao
*Aya: troppo buona
*Yet: eh, tipo una cosa del genere
“”Piovve per quattro anni, undici mesi e due giorni. Ci furono epoche di pioviscolo durante le quali tutti si imposero i loro vestiti di pontificale e si composero una faccia di convalescente per festeggiare la spiovuta, ma ben presto si abituarono a interpretare le pause come annunci di recrudimento. Si disselciava il cielo con tempeste di strepito, e il nord mandava uragani che sguarnirono tetti e sfondarono pareti, e sradicarono le ultime ceppaie delle piantagioni…”
http://books.google.se/books?id=y6f3-R9YMsgC&pg=PT329&lpg=PT329&dq=cent%27anni+di+solitudine+piovve&source=bl&ots=vd6d4zkzpY&sig=xp8un6y_0DQHUQA5UCaDZ60BTao&hl=it&sa=X&ei=GB2rUaqJOImP4gTgjoG4CA&redir_esc=y
nico io a te ti amo.
virgi invece mi fa paura.
Io trovo questo post di una poesia senza pari, e anche a me è venuto in mente Cent’anni di solitudine.
(Ma purtroppo senza nessun Colonnello Buendia all’orizzonte)
Mi metto in coda, perché questo post ha ispirato anche a me enorme affetto e un grande abbraccio per chi lo ha scritto.
Come Cent’anni di solitudine mi hai emozionato e evocato mondi. Poi penso che dovremmo tutti rilassarci, e vivere com’è.
Ah, ti amo anche io.
No, scusa…ma come osi sparire così? Tieffemme!! Senza di te la nostra vita non può più vivereee!!!