Rosi Abate dentro sei tutta marcia ma fuori sì proprio un pezzisticchio

E così, mentre voi pensate a Homeland 2 (molta roba, ma non ancora quanto ci aspettavamo), il nostro autunno televisivo è sempre più segnato da Squadra Antimafia 4, serie che seguivamo anche d’estate con quaranta gradi figurati ora che c’è l’ora legale.

 

Guardie e ladri 

 

 

Squadra Antimafia 4×06, Il passato di Rosy e 4×07, La verità è un fardello pesante

 

Squadra Antimafia è una specie di lava incandescente in continuo divenire, in cui le vendette incrociate si ridisegnano alla velocità della luce e dell’ammazzatina, e la stessa nozione di Colpo di Scena viene riscritta in favore di un ben più congruo Colpo Di Scena Madre (peraltro già obsolescente nel momento stesso in cui va in onda, tanto ne arriva uno ancora più grosso nel giro di cinque minuti). In Squadra Antimafia non ti puoi fidare di nessuno, nemmeno di Roberta Giarrusso e per giunta di te stesso, che a Palermo si sa come siamo fatti.

 

 

Mille minuti di fiction quanti sono? Sembra ieri e invece mancano solo tre puntate alla fine della quarta stagione. Per la prossima suggerisco un reset liberamente ispirato a American Horror Story. Stessi attori e magari stessi personaggi ma attitudini diverse: Rosi Abate andrebbe esplorata in altre direzioni (no, non parlo del cunnilinguo di Marco Bocci a Giulia Michelini, di quello ne parlo tra poco), ma tipo boh la commedia scollacciata. Rosi ha un potenziale brillante che non può andare sprecato. Va bene anche una webserie, sia chiaro.

 

Gli Abate si riproducono per gemmazione

 

Quando, e già passò un sacco di tempo, fecero fuori i millemila fratelli campagnoli di Rosi (Sergio Friscia era il boss, pensa te come stavamo messi) un po’ ci era dispiaciuto: gli Abate erano e sono una razza superiore, capace di muovere il plot come nemmeno Emily Thorne di Revenge. Per fortuna rieccoli, questi Abate, che ora si riproducono per gemmazione e continuano a fare miciddi. Dici Abate e dici danno. Ilaria Abate, già fu Ilaria Viola, e Umberto Nobile o forse dovrei dire Abate: “A Claudia Mares li avete ammazzati voi Abate, suca”. Gli Abate, l’unica famigghia che non rispetta manco il vincolo di sangue. I tempi sono davvero cambiati. Rosi certe cose non le avrebbe mai fatte (ma altre le fa eccome). Sparare alle spalle, che disonore. Ma quando una è pazza, o mafiosa, o bottana, o tutt’e tre, chi se ne fotte dell’onore: un tradimento è sempre un tradimento.

 

Questioni di corna, questioni di ammazzatine. È più devastante, nella psicologia del personaggio, scoprire che il figlio (morto) della tua fidanzata (morta) in realtà era di un altro (MA CHI! MA CHI!) o che il fico o la fica di turno con cui condividi le coltri (Ti amo, in tutti i dialetti siculi del mondo) in realtà se la fa col nemico (Spia! Muffettone! Figghi ‘n grasciato!)? Bella domanda, ma non ce ne frega un cazzo. La mafia è un fatto umano, e come tale continuerà a esistere, almeno nelle fiction. Per sempre. Guardati le spalle (no, non sto parlando di Marco Bocci che piglia Giulia Michelini a pecorina, di quello ne parlo tra poco).

 

Ma anche questione di dettagli. Una buona fiction mette in piedi un universo credibile, che si faccia persino sfottere (“Che minchia ci ricisti ‘i sbirri!”) o che sappia, programmaticamente, allisciare lo spettatore (“Ecco, lo sapevo che finivano a ficcare”). Soprattutto, mette in scena una cura dei dettagli e un gusto delle transizioni apparentemente inutili ma necessari per un salto di qualità vero. Calcaterra che apre lo scatolone con gli effetti personali e guarda una foto della Mares (vetro rotto) e accanto, come se niente fosse, la copertina del libro di Vito Mancuso, Per amore; De Silva che parte per uno dei suoi trip e finiamo nel sogno di Rosi Abate; la macchina da presa che chiude su un bicchiere di plastica e riapre sullo stesso con una ellissi temporale che non disturba, anzi. Questi esempi, e molti altri, fanno di Squadra Antimafia un prodotto che non ha nulla da invidiare alle serie americane. C’è del Matthew Weiner anche in Italia (Sì, lo so, sono parole forti, ma me ne assumo le responsabilità e sono pronto a difenderle in qualsiasi contesto).

 

L’importante è finire. Si racconta che in quella famosa canzone di Mina la censura portò alla sostituzione del verbo venire con il verbo finire. Che è un po’ la stessa cosa ma faceva meno scandalo. La fine, come finire, quando finire, cosa finire: interrogativi imprescindibili in qualsiasi prodotto seriale. Bisogna convincere lo spettatore a tornare, stesso posto stessa ora (impresa titanica, ormai) e di pronunciare la famosa frase: Mariiia non vedo l’ora di vedere come va a finire. Appunto.

 

Con ancora negli occhi lo splendido (emotional) finale della sesta puntata, e la triangolazione Mimmo Calcaterra/Rosi Abate/Claudia Mares, eccoci catapultati in tutt’altra atmosfera, per la chiusura (momentanea) di un cerchio che era nell’aria, ormoni compresi: Rosi Abate in gabbia, legata come una cagna, Calcaterra arraggiato come un cane ferito. Succede quel che doveva succedere, scena violenta, ti piglio a timpulate io pure, scena malata ma che non scade mai nel gratuito. D’altronde quando ti trovi Rosi Abate in minigonna, legata e tutta calda, ma che ci devi dire? “Rosi Abate dentro sei tutta marcia ma fuori sì proprio un pezzisticchio!”

 

 

4 Replies to “Rosi Abate dentro sei tutta marcia ma fuori sì proprio un pezzisticchio”

  1. Io non vedo squadra antimafia, ma la scena finale ha fatto talmente scalpore che è arrivata anche a me. Diciamo molto equilibristi, il regista quel giorno si sentiva ispirato. Ahah

  2. La o in cunnilinguo l’hai messa perché hai voluto usare il caso ablativo dopo il DE, per fare il complemento di argomento, giusto?

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