La felicità al cinema quanto dura?

 

 

Sommario: nel primo numero di #johnnyboy due grandi registi che hanno fatto la storia del cinema, un adattamento francese di un film americano e tanto, tanto sesso: fil rouge buono per tutte le pellicole e, soprattutto, gancio perfetto per acchiappare il pubblico sin dalla prima scena.

 

 

 

 

 

Non sono mai stato al cinema La Bastille. Arrivo che la fila arriva fin fuori, come in ogni boulangerie che si rispetti. La bigliettaia sta in un chioschetto riparato da una tettoia ma pur sempre all’aperto, tra spifferi e un pacchetto di m&m’s buttato lì, vicino al monitor. Prendo un biglietto, entro, e nell’atrio di questo cinema che non ho mai visto in vita mia c’è un tavolo imbandito manco fossimo a una festa delle medie: noccioline, fanta sanpellegrino, vodka. Mi guardo attorno, c’è un rinfresco?, se sì perché non mi hanno invitato? Vorrei chiedere, magari fare un po’ di polemica che tanto piace a questa gente ma poi lascio perdere, il film sta per cominciare (spoiler: non saprò mai per chi era il rinfresco).

 

 

Savages – Oliver Stone 

 

Non seguo le riviste di gossip, non ho mai guardato nemmeno cinque minuti di Gossip Girl che mi fa schifo solo dal titolo: per me Blake Lively rimarrà sempre e soltanto The Private Lives of Pippa Lee, il film più brutto che io abbia mai visto in questa vita, direttamente proporzionale al borioso compiacimento dei produttori nel pensare di aver trovato un cast in grado di mascherare la pochezza del plot. Ma quando metti assieme, nel 2009, Robin Wright (Pippa Lee da mezza età), Blake Lively (Pippa Lee da giovane), Monica Bellucci, Keanu Reeves, Wynona Rider, Maria Bello e Juliane Moore vuol dire che ti meriti molto disprezzo e questo molto non è mai abbastanza (Zoe Kazan no, può fare quello che vuole).

 

Blake Lively, dunque. Qui si chiama O. O. come Ophelia e, per sua stessa ammissione a mezza bocca, fa la porca (in realtà Blake è una seconda scelta, a quanto pare doveva essere Jennifer Lawrence, e Dio solo sa quanto sarebbe stato meglio vedere una santarellina nei panni di una porca invece di una che, direbbe Hitchcock, ce l’ha scritto in faccia). Comunque. O. inizia a parlare e non la finirà per tutto il film, voce-fuori-voce-sopra che racconta, spiega, anticipa, allude e fa i pipponi manco Meredith Grey e Mary Alice messe assieme. Cinque minuti e le chiacchiere lasciano spazio ai culi. O. scopa con Chon (Taylor Kitsch, Friday Night Lights) e due scene dopo con Ben (Aaron Taylor Johnson, quello che si attacca ai pali della luce e fa le giravoltine nel video di UBerlin dei Rem). “Ora penserete che io sia una troia, ma a me piacciono tutti e due. Con Chon scopo, con Ben faccio l’amore”. Perfetto O, non che avessimo bisogno della conferma, ma sei la donna ideale, po’ santa po’ zoccola. E ideale è anche il contesto: mare, sole, corpi nudi, ficcatine. E Droga.

 

Sì, perché ora Jules Jim e Catherine fanno i threesome e nel tempo libero spacciano la droga, contano i soldi e sono felici. Ma la felicità al cinema quanto dura? Arrivano le teste mozzate e i rapimenti e le ammazzatine. Savages. La buona notizia è che Oliver Stone ha smesso di importunarci con le sue menate politicastre e ha deciso di divertirsi con questo script tratto da un romanzo di Don Winslow (il prequel è appena stato pubblicato, forse rivedremo O., o forse no). Riferimenti alti e dotti: Jules et Jim, appunto, Scarface (“Modestamente l’ho scritto io”) e Le Mépris (“L’ho fatto vedere al direttore della fotografia, volevo gli stessi colori mediterranei, sole mare e anche un po’ di Sergio Leone”). Qualcuno ci troverà qualche reflusso tarantiniano (come accade a qualsiasi altro film di genere degli ultimi, boh, quindici anni?) ma la verità è che Salma Hayek-frangetta-à-la-Uma-Thurman, Benicio Del Toro e John Travolta sono soltanto degli inconsapevoli mezzi per prendere abbondantemente per il culo quel Tarantino e quelli che vedono Tarantino in ogni canna di pistola. Bravo Oliver, chiunque si metta in testa di giocare con i codici e con i generi è il benvenuto, qui su #johnnyboy. Continua così, farai strada.

 

 

 

Do not disturb – Yvan Attal

 
A Paris, France i film escono il mercoledì e alle fermate degli autobus, ogni mercoledì mattina, trovi già le locandine dei film che usciranno il mercoledì successivo, giusto per farti sentire sempre come quel cricetino nella gabbia che-non-importa quanti chilometri ha già macinato: non saranno mai abbastanza. Oppure, in certi casi, ma dipende dalle case di distribuzione, dal marketing etc, le locandine appaiono già mesi prima. Luglio, esterno pioggia, cammino calpestando foglie ingiallite qua e là, alzo gli occhi e vedo: Do not disturb, Yvan Attal e François Cluzet a letto assieme e poi i nomi di Laetitia Casta, Charlotte Gainsbourg e Asia Argento. Boom.

 

Immaginatevi Laetitia Casta in una posizione che già avrà fatto capoccetta nelle vostre fantasie almeno una volta nella vita: sì, Laetitia Casta, nella pregiata posizione della pecorina (o, come dicono qui, della levrette) mentre Yvan Attal (o tu, nel più banale dei transfert), la sta allegramente prendendo da dietro e, perché no, sbattendo a dovere, quando all’improvviso bussano alla porta. Con insistenza. Nel cuore della notte. Tu, onestamente, guardami negli occhi, che fai? Continui a bombarti allegramente Laetitia o vai a rispondere? Ecco. Il punto è che Ben e Anna sono sposati ma hanno dei problemi. I classici problemi di coppia. Ma questo è niente. Dieci minuti dopo entra in scena Asia Argento e ci rimane quanto basta per farsi riconoscere.

 

Ora, io non so perché Yvan Attal abbia sentito l’esigenza di avere questo cameo di Asia Argento: forse ha saputo che dopo la separazione da Morgan lei si è messa a fare le fiction con Manuela Arcuri (riformulo: fiction settembrine di Teodosio Losito in cui interpreta la Madre di Manuela Arcuri). O forse, semplicemente, se hai Asia puoi farle fare quel che vuoi. Interno Camera Da Letto: Asia Argento e la sua zita Charlotte Gainsbourg (nella vita vera moglie di Yvan Attal) si chiamano Monica e Lilly e stanno giocando a sesso liberi tutti. C’è anche François Cluzet, Jeff, che vorrebbe dedicarsi interamente alla più allegra tra le due, cioè Monica, ma a un certo punto Lilly se ne esce con questo cazzo-finto-legato-in-vita (che Monica provvede ad assaggiare per bene) ma Jeff non se la sente: va bene che siamo in una commedia libertina francese ma a tutto c’è un limite. Il limite precedente era questo: Jeff e Ben, po’ per scommessa, po’ per gioco e po’ per provocazione, decidono di fare un film porno artistico assieme. Loro due da soli (che poi è il pitch iniziale).

 

Adattamento dell’americano Humpday, questo Do Not Disturb parte come accozzaglia di figurine appiccicate malamente una all’altra per poi trasformarsi in malinconico crepuscolo bergmanian-parigino. C’è il périphérique, c’è la solitudine, c’è una sensazione di malessere diffuso a fior di pelle. Il sesso, nell’eccesso di cui sopra o nell’assenza totale, è puro pretesto: come sovente accade, maschera e confonde, accelera e chiarisce le idee. Oppure, semplicemente, finisce troppo presto. Do not disturb rimane così, a mezz’aria, e proprio quando sta per diventare finalmente un film, anzi una storia che merita di essere raccontata, se ne va, interrotto sul più bello. Esattamente come a volte capita al sesso.

 

 

 

Killer Joe – William Friedkin

 

Se hai intenzione di andare a vedere Killer Joe, sappi che non puoi permetterti il lusso di arrivare in ritardo. Potresti perderti, te lo dico senza giri di parole, la fica di Gina Gershon. Qualsiasi storia dipende da come inizi a raccontarla, forse te l’avranno già detto a quel corso di scrittura creativa da trecento euro a settimana tenuto da uno scrittore che ha pubblicato sette romanzi che nessuno ha mai letto.

 

La nota iniziale, l’attacco, il tono di partenza, chiamalo come cazzo ti pare. Qua è la fica di Gina Gershon. C’è la pioggia, c’è lo sguardo allucinato di Emile Hirsch, c’è il solito buontempone di William Friedkin. E c’è la fica di Gina Gershon. Ci sono anche le chiappe e lo scroto di Matthew McConaughey, e Juno Temple anche lei nuda da capo a piedi (“Di solito non accetto scene del genere, ma qui lo richiedeva la psicologia del personaggio”), ma c’è soprattutto la fica di Gina Gershon. Simbolo e sostanza di una gratuità e di una teatralità che Friedkin ti sbatte in faccia ridacchiando tra un cut e  l’altro.

 

Tutto è eccesso, le smorfie che gli attori sono costretti a recitare per restare dentro questi personaggi che a loro volta corrono appresso alle proprie irrisolvibili turbe psicomentali. Eccesso sono le messe in scena palesemente false (pestaggi compresi) e lo showdown che chiude il cerchio di un mondo senza possibilità di redenzione. Du vrai Friedkin, verrebbe da dire. Ma se tutto è eccesso, allora niente è eccesso e finisci col non credere più a niente. Posto che a Friedkin non interessa bucare la bolla della credulità e anzi gode nel vedere le facce smarrite dello spettatore che non sa che pesci prendere, si fatica a stare dietro a tutta questa somma di male-senza-sbocco. La scena del Pompino Del Cosciotto Di Pollo (ciò che più rimarrà, negli annali e nei colpi di gomito) è trash all’ennesima potenza non per quello che mostra immediatamente (trucco sbavato, lacrime, violenza anzi stupro bello e buono, vomito) ma per quello che non rappresenta: Friedkin sceglie di non andare da nessuna parte e ci riesce benissimo. Oh, ognuno. 

 

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Savages, Oliver Stone: 7.6/10
Do not disturb, Yvan Attal, 4.2/10
Killer Joe, William Friedkin, 3.9/10

 

 

6 Replies to “La felicità al cinema quanto dura?”

  1. Se guardo cosa mandano agli UGC di Bruxelles c’è da piangere. L’unico su cui avevo dei dubbi era Killer Joe, che dalle sinossi sembrava un Tarantino parodiato da Tarantino, ma direi che dopo questo tuo utile post mi rimangono solo Ice Age 4, Brave e Frankenweenie. Sigh. E non posso costringermi a guardarli ora come ora, giacché mi sto leggendo Pirate Cinema di Cory Doctorow. A proposito, leggilo. È nell’ Humble Book Bundle.

  2. *Clem: me lo segno, grazie della segnalazione (ma come! qui l’Ugc programma cagate ma anche cose dignitose. Devi venire a Francia)

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