Le migliori classifiche avulse della nostra vita

 

– Che poi, non fosse per la pioggia… Le temperature, ancora ancora, savà
– Savà anche un par di palle

 

Così la mia amica G., mentre siamo seduti al bar di Mouffetard a vedere la partita dell’Italia contro la Croazia. Niente a che vedere con lo spettacolo rosso di domenica, noi piccoli grumi di resistenza in mezzo alla bolgia ispanica, gente programmata per non pronunciare le -s, gente che vuole fare il triplete ma intanto tenetevi questo pareggio. Tutti a casa e ci vediamo la prossima volta, cioè qui, ora. Siamo pochi, non perché si tratti di un giorno feriale (come se fosse un inciampo, un ostacolo, un problema, un n’importe quoi, la ferialità parigina), piuttosto perché è Italia-Croazia. Gli italiani, si sa, sono quelli che vanno in giro con la bandiera sulla schiena, che snocciolano formazioni e gironi eliminatori dell’80, e poi colmano i vuoti di una partita noiosa come solo il calcio può darne, parlando di tempo, e freddo e una volta a luglio ha piovuto ogni giorno, me lo ricordo che l’avevo appuntato sull’agenda.

 

 

I croati invece, di croato ce n’è uno solo. Trenta a uno. Trenta, dalla Val d’Aosta alle Piramidi, con annessa colonia pugliese (i pugliesi sono ovunque, sempre) (prima non era così) (EH MADONNA SANTA TIRA!, TR’MONE!, TIRA!). E uno. L’uno è un ragazzino, adolescente, zazzera bionda e ciuffo generoso che torna ritmicamente al proprio posto. Ha indosso la maglia a scacchi biancorossi e sopra un piumino nero col colletto in pelliccia. Soprattutto, è francese. C’è anche suo padre, pure lui francese, un Willem Dafoe che si risveglia prosaicamente Claudio Bigagli. Padre e figlio parlano in francese, ma tifano Croazia. E se non ci fosse la maglia a scacchi, ci penserebbe Andrea Pirlo, l’aria svagata di chi perennemente passa-di-lì-per-caso, lui e il boato rivolto non si sa bene a chi, pugni sbattuti sul tavolo, bolle invisibili di birra che volteggiano nell’aria, sommandosi a urla che una volta avremmo definito di liberazione e oggi manco quella. Il ragazzo abbassa lo sguardo, beve un sorso dal bicchiere di cocacola, il padre lo accarezza con un sorriso: dai, c’è ancora un sacco di tempo.

 

E il tempo c’è, come sempre quando c’è di mezzo l’Italia, mai definitiva, sempre cantiere sull’orlo di un baratro. Il tempo di pressare, andare avanti, tirare. E il tempo di recuperare. Gli italiani urlano, perché gli italiani lo sanno, come andrà a finire, lo sanno sempre, e ogni volta se lo dimenticano, che prima o poi arriverà un Wiltord qualsiasi a farci dire: ecco, lo sapevo io. L’Italia un giorno si destò e poi rimase così, protesa al rimpianto, per il resto dei suoi giorni felici, rimpianto e psicodramma, a seconda dei casi, delle stagioni: stringiamci a coorte, non c’è rimasto nient’altro.

 

Il difensore italiano salta a vuoto, il pallone piomba come una scheggia velenosa, il giocatore croato stoppa ma prima un passo indietro, rewind. Squilla un telefono, il telefono del ragazzino croato, il ragazzino croato risponde, la palla è ancora a centrocampo, il ragazzino inizia a litigare, con chi sta parlando?, parla francese troppo svelto, sarà mica la madre?, litiga, gesticola, urla, urla quasi a coprire i telecronisti, urla fino ad annullare tutto, smettiamo di esserci ma ci siamo, spettatori doppi, un occhio ai passaggi e all’1-0 legato a un filo, un occhio al padre che si alza e si avvicina al ragazzo, Dai basta, calmati, ma il ragazzo continua a urlare e le lacrime gli allagano gli occhi, prende il cellulare e lo tira contro il muro, il padre lo abbraccia ma lui si divincola e scappa via, il padre raccoglie la giacca e le sue cose, per un attimo ci incrociamo gli sguardi, lui e noi tutti, la Croazia ha pareggiato e un giorno guarderemo il tabellino dei marcatori: ma chi cazzo era Mandzukic?

 

Restiamo da soli, danni e beffe, per me la beffa è quando all’83esimo entra un tizio tutto gniuro che si chiama Eduardo, Eduardo che gioca nella Croazia, non so, mi pare una tale pigghiata pì fissa che non so, Eduardo, com’è che si chiamava quello di Holly e Benji?, ah no quello era Roberto, vabbè Eduardo entra e lì capisci che davvero tutta questa mollezza non può che andare così, un’ora dopo, seduti al libanese, ad affogare i nostri dispiaceri in pallette di carne e cose fritte e melanzane e peperoni e pomodori e vorremmo non pensarci più, ma siamo Italiani, per sempre, malgrado, tutto sommato, il nostro destino non è mai tutto nostro, sempre un po’ quello degli altri. La Espagna prende a pallate Trapattoni e Tardelli, mentre due ragazze entrano con un materasso sulla schiena chiedendo felafel à emporter, e dopo, un po’ dopo, il padrone del libanese, che è turco, viene a sedersi con noi e finiamo a contare, a fare calcoli di gol fatti, gol subiti, differenze reti e scontri diretti, periodi ipotetici senza senso e per sempre tali. Così, finché ce n’è. D’altronde, disse una volta qualcuno, la vita è quella cosa che ti accade mentre sei impegnato a fare altre classifiche avulse.

 

5 Replies to “Le migliori classifiche avulse della nostra vita”

  1. Wiltord fa ancora troppo male, tenni la copia della Gazza del lunedì, così come quella che aveva in copertina un Byron Moreno impassibile di fronte ad un incazzatissimo Soldatino Di Livio, fino al Mondiale 2006.
    Ero giovane, blabla.
    Ora come ora non riesco ad incazzarmi né ad appassionarmi ai vari Cassano e Mario-ciuffi di maionese calvé-Balotelli. A Pirlo sì, ma perché è Andrea micacazzi Pirlo.

  2. Ma il bambino con chi litigava poi si è capito?? E se ne è andato così sul più “bello” (per lui si intende)??

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