Ogni anno questi giorni, running from a rising tide

prima, anni.
-dica ahhhh
-ahhhhhhhhhhh
-dica ehhhh
-ehhhhhhhhhhh
-dica ohhh
-ohhhhhh buahahaha
-senta, io sono qua per lavorare. la pianta di ridere?
-scusi

dopo, settimane.
la luce era troppo forte. non bastava la mano sugli occhi. e i vestiti erano troppo pesanti. e io ero troppo pallido. guardai le macchine sfrecciare davanti a me. mi dava fastidio tutto quel movimento. avevo la sensazione che tutti sapessero. ma che mi ignorassero. mi sentivo al centro dell’attenzione e anche invisibile. mi sentivo offeso. da chi, per chi, con chi?

prima, minuti.
– senti noi ora dobbiamo andare che ci scade il parcheggio blu, ce la fai da solo, vero?
gli amici. li osservai andare via nel traffico. improvvisamente il borsone mi apparve pesantissimo. guardai l’insegna e il portone di ingresso. mi venne un conato di nausea. avrei voluto scappare. o morire.

durante, eterno.
non è vero quel che si dice degli ospedali. io al mio ospedale si mangiava benissimo. quale minestrina e petto di pollo scondito! io al mio ospedale mi davano anche le lasagne. anche mia madre che non ci credeva -mamma! cucinano benissimo!- lei che è cuoca sopraffina dovette arrendersi: sì ma io le lasagne le faccio più buone, disse infine, prima di andare a recuperare mia sorella. la solita. stava già flirtando con uno degli infermieri.

io devo dire che all’ospedale al mio ospedale si stava una pacchia. mi pareva solo di aver messo pausa, di aver bloccato tutto. fuori. ma lì dentro ah come si stava bene. certo all’inizio fu un poco traumatico. mi avevano messo una flebo. poi alle nove di sera tutto buio io ero rimasto solo, insomma non mi si va a staccare la flebo? e allora vado in panico che era tutto buio e mi pensavo che il sangue usciva a fiotti e ci misi due minuti buoni a trovare il bottone anzi il pulsante da premere. l’infermiera arrivò -con comodo, ma arrivò- e sorrise: capita sempre, ai nuovi. potevate avvertire, no?

io al mio ospedale avevo tanti amici. sapete com’è, tutto il giorno lì, che finisci di leggere l’ennesimo libro ti fai i giri e boh non sai che fare finché ti chiedono: vuoi mica giocare a scopone scientifico con noi che ci manca il quarto? avevo tanti amici. certo, la compagnia non era certo quella che potremmo definire “la meglio gioventù”, ma lì eravamo tutti uguali. questo, solo questo.

il mio migliore amico dell’ospedale era il mio compagno di stanza, il signor guglielmo da procida. a lui non piaceva il cibo dell’ospedale. cioè fingeva che non gli piaceva. si lamentava. il modo meno impegnativo per tenersi impegnato. ma io l’avevo capito che era tutta una posa. e lui aveva capito che io avevo capito. tutti avevano capito e lui anche aveva capito che tutti avevano capito. però era bello lo stesso. una recita. di quelle belle.

mia madre era corsa dal lavoro,
appena lo aveva saputo. non erano bastate le mie rassicurazioni, guarda ma’ che sono venuto con le mie gambe. no, lei portò un altro borsone con altra roba. tra cui. il. fatidico. pigiama. siete mai stati in ospedale, magari a trovare qualcuno? ecco, io credo che tutta quell’atmosfera -diciamolo- di morte, persino quel tipico odore da ospedali siano dovuti ai pigiami che tutti pensano sia necessario indossare. cioè non c’è scritto da nessuna parte che bisogna stare in pigiama in ospedale! mica lo prescrive il medico! eppure è una regola non scritta. tutti pensano che sì. io no. io me ne stavo in jeans. la caposala -una stronza- continuava a dirmi:
– non può mica stare così! si metta il pigiama!
– no! non lo metto il pigiama! sarò pure malato ma io non voglio sembrare malato!

e infatti la gente che veniva -i parenti, i visitatori- e non mi conosceva pensava che io fossi boh uno dell’ambiente. vedevano i miei jeans e non si credevano mica che io fossi lì a lottare contro cosa? per chi? mi chiedevano scusi sa dirmi dov’è il bagno? scusi sa dirmi dov’è l’ascensore? scusi sa dirmi dov’è la cappella?

sì perché al mio piano c’era anche una piccola cappella con una grande croce di fuori. io ci passavo, nelle mie lunghe passeggiate dal padiglione A al padiglione Z -che spasso!- ma non ci entravo. mi ributtava l’idea che io potessi entrarci solo per fare un baratto: ti giuro che prego ma Tu fammi guarire. no, io certe cose non sono proprio portato.

mia madre però sì, ci andava. e si trascinava anche mia sorella e mio padre. lei è una integralista eh. pensa che la quantità faccia qualità. ancora oggi crede sia merito suo, e Suo, se io.

no. il merito è mio. ma non gliel’ho mai detto, nè a lei, nè a Lui, nè a nessun altro.

poi, ogni anno questi giorni.
avete presente un fosso tra due pezzi di terra? ecco. stai lì con la gamba sospesa. sai che devi saltare, ma vorresti che venisse qualcuno a porgerti una mano, a dirti quando come e perché. perché, soprattutto.

ogni anno questi giorni penso al mio compagno di stanza. il signor guglielmo da procida. il mio amico. quando finalmente mi dimisero lui cercò di dissimulare. dopo qualche giorno lo avrebbero operato. non c’erano molte speranze. mi guardò, scoppiò a ridere. aveva gli occhi lucidi e rideva. rideva. mi disse:  non ti azzardare a tornare, eh. guarda che io non ti voglio più vedere. e se per caso torni non mi cercare: faccio finta che a te non ti conosco! presi un respiro. abbozzai un sorriso. ci abbracciammo.

quella fu l’utima volta che lo vidi.

ogni anno questi giorni.

4 Replies to “Ogni anno questi giorni, running from a rising tide”

  1. In questi giorni di ospedale mi è mancato soprattutto leggerti.
    Questo post è così tanto, troppo vicino a questo mio presente che lo trovo scorretto eppure devo ringraziarti.
    estia

  2. Bhe, immagino che un lettore distratto come me capirà forse la metà delle cose che hai trascritto. Però quelle che ho capito erano molto belle, perch in fondo tutti (chi più chi meno) hanno il proprio "ogni anno in questi giorni…".

  3. *estia: non lo sapevo. spero tutto ok, comunque.

    *lord: tranquillo non ti sei perso nulla. questo post è un po' come il caffè corretto 🙂 c'è autobiografia ma solo in parte.

    *yet: 🙂

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