Cerco nuova luce nella confusione
(Entro nella mia stanza, quella vecchia, quella svuotata qualche giorno fa. Alcuni oggetti da riprendere. Il lampadario, l’accendigas della cucina, il carrellino rosso per le patate e le cipolle, lo stendino bianco di plastica robusta dell’incommensurabile valore di cinque euro, una lampadina a basso risparmio dell’auchan. Tutto ammassato in un angolo. La mia stanza, che è ancora mia –le chiavi non le ho riconsegnate-, è cambiata. È già cambiata. Invasa. Zeppa degli scarti di OttusaMente. Giornali, vestiti, scarpe. Scarpe. E cattivo odore. Spalanco le finestre della mia –ancora non ho riconsegnato le chiavi– stanza. Fino all’ultimo, il sopruso. Ma tant’è. Chissenefrega, oramai. È passato un secolo. Entro in cucina. Un sacchetto stracolmo d’immondizia appeso alla maniglia della porta. Una lattina vuota di cocacola light coricata sul tavolo. Mi arresto. Entro in bagno. Una pila incerta di vestiti sporchi e maleodoranti sulla lavatrice. Il lavandino nero di sporco. Apro la finestra. Gesti meccanici. Tiro lo sciacquone. In corridoio una rete ortopedica fa da stampella ad una camicia a righe. Raccolgo le ultime cose.
Rapido check, tipo quando vai via da una camera d’albergo. Mi fermo sulla soglia dell’ingresso. Ecco, è così: quel giorno di pioggia, quando vi misi piede per la prima volta. Un posto nuovo. E adesso. Camera d’albergo. Chissà se ho dimenticato qualcosa sotto il letto. Il letto non c’è più. Cosa rimane di sette mesi e di una stanza quadrata e di un armadio in corridoio e di baci e di orgasmi e di vittorie mondiali e di bevute e mangiate e dormite? Uno sguardo che sfugge, che non si posa -non vuole, non può!- su nulla. Ecco cosa rimane. Chiudo la porta, scendo le scale. Incontro la proprietaria della casa. “Ah ciao, che coincidenza, ti avrei chiamato in questi giorni”. Ci metto un po’ a sfilare le chiavi dall’anello del mazzo. Ecco. È stato un piacere, ci sentiamo per caparre e bollette. Scendo le scale, con lo stendino sotto braccio e il mocio vileda nell’altra mano. Incrocio il portiere, Josè il colombiano. Josè, che mi ha aiutato a smontare il lampadario e a montare serrande e a caricare roba sulla macchina. Josè, quello che lo incrociavo in guardiola a leggere libri e avrei voluto fermarmi e chiedergli e chiedergli. Dico serio serio “Vabbè, io me ne vado” e lui mi guarda con quegli occhi di uno che vive una vita non sua, una vita-ripiego, chiede “Ci rivedremo?”. Sorrido e dico “Forse-sì-forse-no” e lui scoppia a ridere, fragorosamente. “Forse-sì-forse-no” ripete, imitandomi. “Che taglio” dice. Ci stringiamo le mani. Dite callose e gonfie di uno che lavora e che si fa il mazzo, penso. Buona fortuna, buona fortuna. E non ci sono, non ci possono essere parole diverse, per questi titoli di coda al rallentatore. Salgo in macchina, il cielo è blu e il sole sta cominciando a scaldare. Risplendi e scaldami. Metto in moto. 80, 90, 101. Barry White. Let the music play / just I feel / I feel this misery is gone. Aggiusto lo specchietto retrovisore. Apro la freccia. Ruoto lo sterzo. Sono le 10:10 del 10-10. Eeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee=