Mamma Roma: col bene che ti voglio lo sai non finirà

//Luglio. Chìmìsàmisàchèsà. Luglio. Ci compio gli anni (manca quel tanto). Luglio, tante e troppe cose sono iniziate qui. 2001. Oggi, come ieri, a discutere di un povero ragazzo ucciso che oggi avrebbe la mia età. A discuterne con persone prive di intelletto. Ma è lo sguardo all’indietro, senza torcere il corpo, a (ri)dare dignità ai pensieri e ai gesti. A patto di un sorriso che indulge. L’anno scorso: davanti a un cumulo di sguardi parlai, premiomunito, di Roma. Ne parlai nel solo modo che potevo, per quello che ha rappresentato per me: eccessi, così tanti da far girare la testa. Eccessi, ma: senza parole. Tirato appena in tempo fuori dalle sabbie mobili. Rollerball, Water from the same source, Mogwai e I know etc, circuiti altalenanti, Don’t laugh at me, don’t look away, tutto si sovrappone, i miei jours etrangers, le mie hallelujah. Colonne sonore, troppe. Confondendomi.

Ieri sera, per caso.

Le cose rimangono, e avvengono, per caso (cosa vuoi che sia?): un regista, due sceneggiatori (tu chiamala, se vuoi, gemellanza, ovvero “le cose migliori nascono da una frase: “e chi è questa/o stronzo/a?”), una postproduttrice, ovvio. Ma anche un museo, nella fattispecie il Macro, la dependance di Testaccio. Christian Boltanski. Morti che galleggiano per aria, luci e battiti intermittenti, voci di colpa e malanimo. Se scosti una tenda di plastica non sai che trovi, attenta, rimani al tuo posto: c’è chi si scambia tenerezze, davanti a teche di vetro piene di cadaveri e ragni. Buio. E una signora. La custode del museo. Roma. La guardi in faccia, è Roma, questa signora, e ci sarebbe da commuoversi dalla commozione se non fossi troppo impegnato a ridere di risate pure, e ancora ridere, che tutto sommato, poi, è piacevole prendere per mano qualcuno e domandare, farsi spiegare, entrare in una vita, rimpiangere di non avere una telecamera, o perlomeno un pezzo di carta su cui tenere e trattenere. La sublimazione di una serata afosa. L’arte che vorrebbe demistificare la vita (se c’è), e ci riuscirebbe pure, magari, se non ci fosse Roma, la signora Roma, a demistificare l’arte (se c’è), a chiudere il cerchio, a rendere vana (o di straordinaria importanza) anche la paura, i discorsi sospesi, l’attesa, la voglia solo di uno stipendio in fondo al tunnel. E il resto, chissenefrega. L’arte, ma che è ‘sta robba, io ciò paura, e bbasta. Una, quattro sedie di quelle estive. “Mi’ fija m’ha pure telefonato, per sapere come stavo”. Entrate pure, l’ingresso è gratuito, infatti abbiamo fatto, e ora uscite pure, tutto è gratuito. Buona fortuna, dice, Roma: buona fortuna, è la risposta, senza voltarci indietro, senza torcere il busto. Buona fortuna. Già, tanto è gratuito.// 

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