Mamma Roma: col bene che ti voglio lo sai non finirà
Le cose rimangono, e avvengono, per caso (cosa vuoi che sia?): un regista, due sceneggiatori (tu chiamala, se vuoi, gemellanza, ovvero “le cose migliori nascono da una frase: “e chi è questa/o stronzo/a?”), una postproduttrice, ovvio. Ma anche un museo, nella fattispecie il Macro, la dependance di Testaccio. Christian Boltanski. Morti che galleggiano per aria, luci e battiti intermittenti, voci di colpa e malanimo. Se scosti una tenda di plastica non sai che trovi, attenta, rimani al tuo posto: c’è chi si scambia tenerezze, davanti a teche di vetro piene di cadaveri e ragni. Buio. E una signora. La custode del museo. Roma. La guardi in faccia, è Roma, questa signora, e ci sarebbe da commuoversi dalla commozione se non fossi troppo impegnato a ridere di risate pure, e ancora ridere, che tutto sommato, poi, è piacevole prendere per mano qualcuno e domandare, farsi spiegare, entrare in una vita, rimpiangere di non avere una telecamera, o perlomeno un pezzo di carta su cui tenere e trattenere. La sublimazione di una serata afosa. L’arte che vorrebbe demistificare la vita (se c’è), e ci riuscirebbe pure, magari, se non ci fosse Roma, la signora Roma, a demistificare l’arte (se c’è), a chiudere il cerchio, a rendere vana (o di straordinaria importanza) anche la paura, i discorsi sospesi, l’attesa, la voglia solo di uno stipendio in fondo al tunnel. E il resto, chissenefrega. L’arte, ma che è ‘sta robba, io ciò paura, e bbasta. Una, quattro sedie di quelle estive. “Mi’ fija m’ha pure telefonato, per sapere come stavo”. Entrate pure, l’ingresso è gratuito, infatti abbiamo fatto, e ora uscite pure, tutto è gratuito. Buona fortuna, dice, Roma: buona fortuna, è la risposta, senza voltarci indietro, senza torcere il busto. Buona fortuna. Già, tanto è gratuito.//