Match Point – Woody Allen
Premessa. Non sarò obiettivo&imparziale. Questo film infatti parla di, in ordine di apparizione: Tennis, con citazioni politically correct, ovvero l’inglese greg rusedki e l’americano andrè agassi; Londra, ovvero miei pezzi di cuore rimasti su un autobus a due piani alle cinque e mezza del mattino tra chelsea e piccadilly; e, soprattutto, la Saatchi Gallery, ovvero un’esperienza esaltante (e mi tengo basso. A proposito, saluti a Davide, Cecilia, Miki, Costanza, Monica, e gli altri, anche se magari hanno di meglio da fare che leggermi). E dopo un pentolino di fatti miei, passiamo al film.
Trama. Un giovane ex tennista di umili origini irlandesi, a poco a poco si fa strada nell’alta società londinese sposando la figlia di un magnate. Grazie al suocero e alle proprie abilità riuscirà a fare carriere. E non solo. Soldi, prestigio, stima. Ma la partita non sempre è così facile, e presenta qualche difficoltà di troppo. Tra queste, la bella Nola, ovvero Scarlett Johansson.
Versione inedita per Woody Allen, che piomba in Europa virando verso un giallo che, almeno nella prima parte, regala sapori di stampo chabroliano. Il concetto della sorte, della buona sorte, apre e chiude il film, come una parentesi. Appunto, lo chiude. Perché in mezzo -ovvero il film- non c’è altro se non una sceneggiatura piatta. Ad ogni “snodo” non è difficile immaginare quale direzione farà prendere al film il quasi invisibile Woody. Il quale saccheggia diversi classici della letteratura otto-novecentesca, con temi che ritornano immancabili: la scalata dell’homo novus, il matrimonio borghese, il ‘virus’ che entra in circolo sotto forma di passione (=follia). E, trattandosi dell’anzianotto ma ancora geniale Allen, tutti gridano al miracolo, al capolavoro irraggiungibile, come per esempio MaurizioPorro (Update: grazie a lorenzo per la segnalazione dell’errore) che sul Corsera gli dà un voto strabiliante: 10. Stiamo tranquilli che se qualunque giovane autore avesse proposto una pellicola di questo tipo la stroncatura sarebbe stata impietosa.
Cosa c’è dunque che non va nel film? C’è che va bene gli stereotipi, necessari quando non fondamentali nel cinema contemporaneo, fatto&rifatto di scritture&riscritture, ma i topoi di cui sopra vanno poi accompagnati anche da qualcos’altro, da un guizzo. Ciò non accade in MatchPoint: Allen ad un certo punto mette il pilota automatico e, nonostante alcune scelte stilistiche pregevoli, continua, trascinando lo spettatore in una noia spesso parente stretta del ridicolo che si fa onirico (e viceversa). Non contribuiscono, ma forse è una conseguenza del deja-vu che come una spada di Damocle imperversa e condiziona le due ore di film, i due attori protagonisti. Compresa una sopravvalutatissima (eufemizzo) Scarlett-Broncio-Johansson che, nonostante il vento in poppa di enfant prodige predestinata ad un sicuro successo, non riesce a risollevare le sorti di un personaggio in-credibile, che si accende e spegne come un interruttore. Da puttana a casalinga disperata nel giro di un fotogramma. E che dire di Jonathan Rhys Meyers, (auto?)condannato ad una sola, trasparente espressione nell’arco del film (i suoi occhi sono davvero di un verde trasparente, così tanto che sembra che sia febbricitante o che gli abbiano messo delle lentine colorate. Avete mai visto l’espressione di uno con le lentine posticce? Ecco, sembra proprio così). Non rimane molto, ordunque. Se non una battuta pronunciata nella prima parte -la migliore- del primo tempo.
Il protagonista: “Mio padre dopo esser diventato paralitico, ha trovato la fede, ha trovato Gesù Cristo”
Il cognato, di rimando: “Non mi pare che ci abbia guadagnato, nel cambio”.
Ecco, io rivoglio questo Allen.
P.s. Fortuna che non sono stato obiettivo.
Commento OT:
ecco il link del mototre di ricerca di cui parlavo da me…
http://search.blogger.com/?ui=blg&q=
Time Out (la bibbia della vita londinese) l’ha abbastanza stroncato, coronando una recensione graffiante (che evidenzia gli stessi tuoi punti deboli) con un’intervista in cui Allen viene fuori come un settantenne stanco, consapevole, ma rassegnato (direi quasi “arreso”) al proprio declino (artistico e personale). Scarlett-Broncio-Johansson invece la salvano e apprezzano la resa generale del “clima” londinese (mi sembra di sentire il partigianissimo giornalista cockney che poco fra le righe fa ad Allen: “E ammettilo che London e’ mejo de Nu Yorke!”)
Ottavia: Ecco, io l’ho sempre detto che TimeOut è la rivista più cool del globo! Sulla resa generale del clima londinese niente da eccepire (Londra E’ la mejo, anche se non sono ancora sbarcato a NewYork), anzi. Su Scarlett penso che ci scriverò presto un post. Non mi convince, perlomeno non nei termini della critica, forse abbagliata dalla peraltro-indubbia-bellezza. Sui giudizi negativi a proposito di Allen invece concordo, e concorda anche lui (Allen) se spesso, come accenni anche te, si è definito un mediocre cineasta e si è detto sorpreso del successo che riscuote in Europa. Evidentemente in Italia abbiamo (cioè hanno) altre lenti di giudizio: il film è in testa ai botteghini (cosa impensabile di solito per i film di Allen). Per la gioia della Medusa.
ah veliero, dimenticavo: grazie del link! Anche io ho visibilità!!!
Figurati, caro!
EVVIVA la visibilità immotivata, immeritata ed inutile…!
Conquisteremo il mondo!
Dici che è inutile? 😉
Strano che Mereghetti dia dieci al film: la recensione apparsa sul sito del Corsera (anche quella video) dice chiaramente che il film è bello ma non è un capolavoro. Tra l’altro, io condivido, ma questa è un’altra storia…
Lorè
Ho controllato: hai ragione lorenzo, la recensione sul corriere che ho letto io (quella del 10) era di maurizio porro, non di mereghetti. Grazie per la segnalazione.
ciao