2012 à Paris (1): Tim Burton e Stefano Savona
1. TIM BURTON, HELENA BONHAM CARTER, STEFANO SAVONA, IO: ERA GENNAIO, ERAVAMO NOI
Il 2012 inizia un mezzo pomeriggio de la mi-janvier, Bercy sprofondata in una grigia grisaglia, la Cinémathèque quasiment vuota, io che ho scelto proprio oggi proprio adesso per fare l’abbonamento, all’improvviso mi volto, alle mie spalle una donna vestita come se non possedesse un armadio, un uomo dall’aria svagata e i capelli altrettanto. Fissano il soffitto, indicano muri, fanno foto, cose così. Sono TIM BURTON e HELENA BONHAM CARTER, sopralluogo in vista della mostra che batterà-ogni-record. Segue shock. Ne segue un altro quando i due escono e io mi fiondo appresso e Tim Burton mi tiene la porta (Tim Burton mi tiene la porta. Se fosse il mio regista preferito gli direi che è il mio regista preferito, invece sorrido d’educazione: “Grazie”). E poi faccio la famosa “Foto a Helena che fa la foto a Tim”.
Mi riprendo settimane dopo, quando Burton fa una Masterclass con la gente che rimane fuori a fare le resse, e lui è rilassato e fa un sacco di facce buffe, la gente ride moltissimo, lui rivela che da piccolo ha vissuto con sua nonna, un ragazzo del pubblico gli chiede se ha visto “il dvd con il mio film che le ho dato ieri prima di salire sul taxi”, lui ride e dice “Tranquillo, di solito mi perdo tutto, anche le chiavi dell’albergo,ma i dvd che mi danno i fanz no”, e poi qualcuno chiede “Qual è il tuo film preferito, Tim?” e lui non fa come tutti quei registi che sorridono come a dire “Che domanda sciocca”, no, lui ci si mette, ci pensa e poi dice Edward Scissorhands: “Quello che mi è più caro”. Poi finisce, Tim mi passa accanto e io penso chissà che si prova a essere Tim Burton che la gente ti si butta ai piedi.
Il 25 gennaio è un mercoledì, sono le otto meno e un quarto di sera e sto per entrare al Reflet Médicis. È la sera della prima di Tahrir, place de la Libération, di STEFANO SAVONA. Sto chiacchierando del più e del meno con una regista israeliana. In italiano. Lei un po’ lo parla, un po’ no. Dice che non ha mai capito perché la coniugazione del, per esempio, passato prossimo, non segue il genere della persona che parla: “Voi dite Io ho mangiato, ma se Io sono donna perché non posso dire Io ho mangiata? Sarebbe più chiaro, no?” “Non ci avevo mai pensato” le rispondo. Prendiamo accordi per delle lezioni private di Lingua e Cultura Italiana (spoiler: non se ne farà niente). Arriva Stefano Savona, entriamo e ci sediamo.
Stefano Savona è un regista e documentarista. A un certo punto, gennaio 2011, piglia la sua Canon 5D e un piccolo registratore e se ne va in Egitto, piazza Tahrir, c’è una rivoluzione da filmare, con tutte le difficoltà e i problemi di quando fai i film mentre li fai. Quei giorni, quelle facce, quella rabbia, quella gioia, quei motivi, quelle urla, prima della primavera araba, e questo film che tra qualche mese vincerà il David di Donatello e più avanti ancora Savona verrà citato dai Cahiers du Cinéma come uno dei nomi dell’anno. Si accendono le luci in sala. Segue dibattito e il pubblico, che è internazionale, ci dà dentro. Stefano Savona forse preferirebbe saltare questa cosa, o forse no, pourtant è bravissimo, risponde in francese, a tono, trascinato in questioni certamente irrisolvibili adesso, ma lui si rimbocca le maniche: Altre domande?
Fuori è pieno di gente a far scoppiare rue Champollion, incontro un mio collega dell’altra vita, anche tu qui?, eh sì sapessi, c’è questa bella Palermo nell’aria, siamo un gruppetto, ora su boulevard Saint-Michel che camminiamo, inizia a piovigginare e a tirare un poco di vento, oh, è stato bello, magari ci ribecchiamo, magari, sì.
(Intervista con Stefano Savona) (Trailer di Tahrir)
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Domani la seconda parte di 2012 à Paris: BOARDWALK THE WIRE
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