“Al limite mi puoi chiamare la nonna della Nouvelle Vague”

 

Agnès Varda sorseggia la sua camomilla e intanto io con una mano prendo la photo e con l’altra fingo di apprezzare questo vino bianco scadente che il y a cinque minuti un’austera barista in camicia bianca e pantalone nero mi ha versato nel bicchiere direttamente da un enorme cartone provvisto di rubinetto, nascosti, il cartone e il rubinetto, in basso, da qualche parte, la barista non credendo di essere vista, ma sottovalutando il potere salvifico di uno specchio posto alla sua destra da cui io mi godevo la scena, malgrado la penombra che mi fa tanto eleganza e pulciaro. Ma i miei genitori, brava gente, mi hanno insegnato che le cose gratis, specie quelle offerte da Orange Cinéma in occasione di un evento pubblico come questo, non si rifiutano mai, anche se il vino è, l’ho già detto, scadente, mica come quel Tavernello della pubblicità in cui la tipa si metteva un dito in bocca a mimare il rumore dello stappo della bottiglia di vino pregiato e nessuno si accorgeva della differenza, mentre in questo caso sì.

 

 

Agnès Varda è qua, ma si vede chiaramente che vorrebbe essere altrove. Ovunque, ma non qui, al Café Rouge così bobo, dove i cosiddetti creativi vengono a fare le riunioni e i brainstorming tutti assieme o anche a spararsi le pose coi loro mac che odorano di nuovo e obsolescenza, a fingere di scrivere chissà che, mentre la musica è sempre troppo alta per i gusti di chiunque e i topolini che scorrazzano tra le sedie pure. Umanità varia che lei, Agnès Varda, non ha mai considerato interessante, o semplicemente degna di diventare oggetto di rappresentazione. Ma Varda c’è venuta, a questo evento organizzato da Libération e Orange Cinéma e chissà chi altro, ogni quindici giorni aperò bobo nel cuore della città del cinema, per promuovere l’uscita del cofanetto con tutta la sua opera omnia, davanti a una cinquantina di persone, e si concede, eccome, questa donna alta un metro e quaranta, con lo stesso buffo taglio di capelli bicolori di sempre, e con lo stesso innato istinto di contraddizione che la fa rimanere, beata lei, sempre in bilico tra enorme distanza e enorme coinvolgimento.

 

Agnès Varda, classe 1928, non si risparmia, e si può permettere il lusso di contestare ogni domanda o considerazione della giornalista (“A differenza di altri il tuo cinema è segnato da una vera ossessione per l’altro” “No, non è così”); esclude il tentativo di inclusione nella Nouvelle Vague (“Al limite sono la nonna della Nouvelle Vague”, “Ho la fortuna di essere ricordata come regista perché ho fatto delle cose molto radicali in anticipo sui tempi. Una specie di rondine che ha fatto una primavera, questo sì, te lo concedo”); sottopone il pubblico a vere interrogazioni non programmate (“Chi ha visto il mio documentario Murs, murs? Dai, alzate le mani, voglio saperlo, ORA”); evoca l’episodio di Simone Weil che viene insultata e offesa in Parlamento (“Nei forni!” le gridarono, a lei che visse quello che visse); ricorda il buffo rimbrotto di un uomo che le chiese se fosse abbastanza femminista a quei tempi trasferirsi in America solo per seguire suo marito Jacques Demy (“Ma che domanda era?” si chiede oggi); svergogna il giovane blogger embedded che le pone domande di cui non ha contezza (“Non hai idea di quello di cui sto parlando, vero?” “Ehm, EHM”); dice che se per caso il cofanetto è troppo caro per noi, nessun problema, “da venerdì a domenica al Nouveau Latina proiettano tutti i miei film dal primo all’ultimo” (e qui guarda maternamente il giovane blogger embedded). E infine, quando vorremmo che il tempo non finisse mai, prima confessa di ignorare i motivi per cui Selma Hayek non fece promozione all’ultimo film di Mathieu Demy (che è suo figlio), e poi si alza in piedi e tira fuori dal cofanetto sigillato una Pochette Surprise (“Ho insistito tanto, per farla mettere insieme ai dvd”): una scatola di sua creazione da cui estrae foto, collage, cartoline, pupazzetti e altre cose talmente senza senso da sembrarci cruciali per i destini dell’umanità e quindi di tutti noi. Distanza e coinvolgimento, 

 

e fuori fa ormai troppo freddo per poter far finta di no, osservo Agnès Varda allontanarsi caracollante con il suo inseparabile sacchetto, mi ritorna su il retrogusto dégueulasse del vino di cartone, intanto risalgo rue de Franche Comté e poi a sinistra Rue Béranger, e poi arrivo a République, da quando ci sono i lavori non si capisce più niente, prendo la cinque quella con i sedili tutti nuovi e colorati ma la gente è musona uguale, intanto sono le nove passate, fuori fa ancora più freddo, il marciapiede è seppellito da una coltre di foglie morte e cariche di umidità, meno male che c’è questo Monoprix aperto fino alle dieci, entro, e un attimo dopo sono lì che peso le pere conference, e mi torna in mente, non so perché, Agnès Varda che cita le cose buffe e divertenti della vita, tipo quella volta che su un negozio c’era scritto Fermé à cause de fermeture, e lei che si metta ridere e io pure e tutti appresso, e c’è questo momento, uno solo, in cui tutti stavamo ridendo, ma proprio tutti nello stesso tempo, grazie ad Agnès Varda. 

 

 

2 Replies to ““Al limite mi puoi chiamare la nonna della Nouvelle Vague””

  1. Ho riso anch’io fermement, e i capelli bicolori mi spaventano un po’, ma un té ci vengo a prenderlo, con te e con lei 🙂

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