Contenuti anni ’90, scenografie cupe, buie e luttuose: la Rai di oggi
Conservare. Scongelare. Intrattenere.
Ieri sera su Raiuno il pilot di Adamo&Eva, esperimento di game-sociologico condotto da Fabrizio Frizzi. Cinque coppie di marito e moglie, più o meno giovani: prove, giochi, domande, quiz, telecamere nascoste, sondaggi. Qual è la coppia perfetta del 2010?
2010. Basta dire affinché sia? No. Conduzione, ospiti, struttura complessiva: tutto talmente ecumenico e comune che uno spettatore degli anni ’90, forse anche ’80, non ci avrebbe trovato nulla di strano. Esempio: le prove stile Per tutta la vita o Tra moglie e marito. Mancava la lavagnetta, d’accordo. Ma il resto c’era tutto. Le domande per vedere se vi conoscete bene. Uniche concessioni al nuovo secolo: l’utilizzo della parola multitasking (multiché?) e qualche domanda impertinente tipo “Dove avete fatto l’amore per la prima volta assieme?”
Conservare. Scongelare. Intrattenere.
Questi i principi che sembrano guidare la produzione di contenuti del servizio pubblico oggi. Anche a un’occhiata superficiale, emerge con evidenza un unico modello di intrattenimento: la replica infinita. Un intrattenimento che non vuole contenere, al proprio interno, elementi di distinzione, di smarcamento. Tutto è riproducibile, volendo, per sempre: le gare tra cuochi, le ghigliottine serali e seriali, i sentimenti pomeridiani, le stesse scalette dell’infotainment (chi abbiamo invitato l’anno scorso per parlare di calorie in eccesso?). Niente rimanda all’adesso, al qui e ora, all’eccezione di un momento che, ça va sans dire, è e deve essere sempre diverso. Invece l’intrattenimento, oggi più che mai, costringe la ripetizione (che pure è connaturata al concetto stesso di televisione) dentro confini sempre più rigidi col chiaro intento di produrre compartimenti stagni; applica il già visto, il già detto, a una realtà sempre più necrotizzata e freezata in bolle atemporali che al momento opportuno verranno, appunto, scongelate, come fettine di tacchino; applica questo massaggio emolliente, rassicurante, eterno, il cui sottinteso dichiarato è: spettatore, non preoccuparti, rimani, stai, vuoi mica una copertina sulle ginocchia?
E, se non bastasse il testo, ecco ulteriori conferme dalla dimensione prettamente estetica. A parte qualche rarissima eccezione, non c’è programma del servizio pubblico la cui messa in scena complessiva (scenografia, luci, fotografia) non rimandi a tinte scure, cupe, a volte finanche luttuose. I colori dominanti sono il nero, il marrone, il grigio. Non c’è prospettiva, non c’è futuro, non c’è orizzonte, in quegli sfondi senza luce: il conduttore parla, parla, alle sue spalle il vuoto privato anche del proprio abisso, al limite qualche casalinga annoiata che tiene stretta la propria borsa tra le mani. Manca l’aria, e si vede, si sente. C’è crisi, dicono. Sarà, ma intanto: spettatore, non preoccuparti, rimani là, stai, vuoi mica una copertina sulle ginocchia?
E qui, non ho potuto fare a meno di pensare a questo
sempre meglio delle pailettes (due di numero, una per tetta) delle varie soubrettes delle reti "commerciali".
Massì, capisco cosa vuoi dire e hai ragione, ma la televisione italiana mi fa così cacare (scusa, so che è il tuo campo ma non è il mio) che spero coli a picco e tutti la buttino via. Per sempre. Definitivamente.
Zion