“Un pezzo di Stato voleva Falcone morto e un altro pezzo di Stato lo voleva vivo”

Giovanni Falcone fu assassinato il 23 maggio del 1992.

Già nel 1989 fu oggetto di un attentato. Il 21 giugno di quell’anno fu ritrovato un borsone pieno di tritolo in mezzo agli scogli dell’Addaura, a pochi metri dalla villa di Falcone. La strage fu sventata in circostanze mai chiarite. Sulla scena si trovava un commando di mafiosi. In mare, un canotto con due sommozzatori. Secondo un’opinione che divenne presto certezza i due sommozzatori erano i complici o fiancheggiatori di coloro che invece stavano tra gli scogli.

La vicenda è stata in questi giorni ripresa da un’inchiesta di Attilio Bolzoni di Repubblica. Incrociando dati e testimonianze scomparse, Bolzoni prova a squarciare il velo di bugie che avevano portato, allora, a clamorosi insabbiamenti e depistaggi. (qui e qui gli articoli)

Innanzitutto il tritolo fu collocato non il 21 ma il 20 giugno. Poi. A terra c’era un commando formato da un gruppo di mafiosi dell’Acquasanta. Assieme a loro alcune presenze estranee: uomini dei servizi segreti. I due sommozzatori indicati come sicari erano invece lì in acqua per salvare la vita a Falcone.

I due sommozzatori si chiamavano, probabilmente, Antonino Agostino e Emanuele Piazza. Agostino era un agente sotto copertura, “a caccia di latitanti”. Piazza era un ex agente di polizia che aveva cominciato a collaborare con i servizi segreti, cioè il Sisde.

Agostino fu assassinato assieme alla moglie Ida Castellucci il 5 agosto 1989.
Piazza fu assassinato il 15 marzo del 1990.

In entrambi i casi, sostiene Bolzoni, la squadra mobile di Palermo seguì delle improbabili piste passionali.
Depistaggi.

“Un pezzo di Stato voleva Falcone morto e un altro pezzo di stato lo voleva vivo. Ma chi ha deviato le indagini sugli omicidi di Agostino e Piazza?”
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Del fallito attentato all’Addaura ho pochi ricordi. Sono ricordi che affondano in sensazioni, impressioni. Quelle di un ragazzino che già si stava abituando al clima di “opacità”  che lo circondava. Ricordo, nelle discussioni tra adulti che origliavo ovunque se ne parlasse, la diffusa aura di “sospetto”, “collusione”. Termini che allora ovviamente non conoscevo, non maneggiavo.
Ricordo però, distintamente, la sensazione  di un doppio livello: le cose dette e le cose alluse. Quello che tutti dicevano e quello che tutti  in realtà pensavano. Una sensazione simile a quella che mi si appiccicò addosso tra il 23 maggio e il 19 luglio del 1992, giorno in cui assassinarono anche Paolo Borsellino. Una sensazione di “tragedia ineluttabile”.
Tutti sapevano in qualche modo che l’attentato a Falcone non era solo di matrice mafiosa. Esattamente come tutti sapevano, in quei due mesi scarsi, che Borsellino sarebbe morto. Tutti sapevano ma non sapevano. Lo so, ragionamento complicato da comprendere per chi non è siciliano.
Il sapere, seppellito sotto vari livelli di altro sapere: in Sicilia tutto può accadere.
Sapere, e accettare, che esista questa possibilità, è ciò che, in estrema sintesi, rende reale il potere mafioso.

Sarebbe bello se l’inchiesta desse nuovo impulso alle indagini. Sarebbe bello se quei due “sommozzatori”, e le rispettive famiglie, ricevessero finalmente giustiza.

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