Nel nome del Bene Superiore

The Americans

 

 

Ci sono serie che devi guardare in un’unica abbuffata (to binge) e serie che devi consumare un pezzo alla volta (or not to binge). Anche nella seconda stagione, The Americans si conferma serie per la quale sarebbe meglio seguire programmazione e relativa visione settimanale. Per la struttura generale dell’intero testo e per la modulazione dei singoli episodi, costruiti sulla base di ripetizioni che alla lunga possono portare a una delle frasi più fatte pronunciate dai serial-additti negli ultimi anni: ok, ma se facevano una miniserie da 6 episodi era meglio.

 

 

The Americans riempie una casella seriale non così guarnita (spionaggio, controspionaggio e ritorno) all’interno del mega contenitore “Racconto di un mondo che non c’è più ma che continua a influenzare le nostre vite”. Siamo in piena guerra fredda, ci sono gli americani, i russi, l’FBI, i doppi e tripli giochi, sparatorie, ammazzatine, ficcatine e le altre figure retoriche di genere che è lecito aspettarsi. Elementi che innervano il tema centrale dell’intero racconto: cosa si è disposti a fare in nome del Bene Superiore?

 

Le risposte arrivano in continuazione, praticamente in ogni scena, e dipendono dagli universi valoriali di ogni personaggio e dalla loro capacità di reagire agli stress conflittuali: questioni di Vita, di Morte, di Lealtà, di Tradimenti, di Obbedienza. Elizabeth, Philip, Stan, Paige: quanto è solida la vostra Fede? Sono tutti coinvolti, e questa compattezza tematica (vero handicap, per esempio, di Homeland 2 e 3) compensa gli intermittenti cali di intensità, specie negli episodi centrali di serie, tra MacGuffin celati male e pericoli solo in teoria.

 

E poi ci sono 5 cose che rendono la visione di The Americans un’esperienza di irresistibilità grado 7:

 
Letto

Aka Felicity

 

 

QUESTI RUSSI FICCANO ASSAI – Si parte in pompa magna con i primi venti minuti di 2×01: un threesome “Due spie russe fimmine tutte nude di cui una veramente bona + nerd flaccido americano preso per il culo dai mariti delle due spie russe che irrompono in medias res” e un servizievole 69 a cui si dedicano Elizabeth e Philip, interrotto sul più bello dalla figlia Paige (talmente scioccata che da lì inizierà  un percorso, come dire, SORORALE). Si prosegue con qualche fettina di culo negli episodi successivi, con la nostra ex gelida Elizabeth che chiede al marito di pigliarla come all’animali, gelosa per i racconti dell’altra moglie di Philip. Poi la curva del desiderio scende un po’ per ripigliarsi nel luccicante sesto episodio in cui, come i conigli e forse anche di più, il fornicar m’è inevitabile tra una spiata e l’altra, in ogni ordine di, ehm, inclinazione. Si chiude più casti con innocenti giochi di mano e cunnilingui, e le odiose scene della gente che fotte con le lenzuola arrotolate là dove non batte il sole. Ma meno male che c’è:

 

 

Claudia

 

 

CLAUDIA – La spia più credibile di tutte ha le fattezze di Margo Martindale che appare e scompare come guest di lusso, pronta a dispensare perle come “Siete già vivi, ed è un buon segno” e poi andarsene non prima di aver lanciato sentenze di morte come noccioline al vento. In generale, e seriamente, Claudia arriva per rilanciare l’azione quando si rischia la noja definitiva: Chi ha ucciso Emmett e Leane? Ora tocca a Paige, cose così. Meno pessime sitcom (The Millers) e più action nel futuro della nostra Margo.

 

 

LA LAVANDERIA di CASA JENNINGS – “Mamma, ma cosa fai, il bucato alle tre di notte?” “Paige, se non la smetti di rompere il cazzo ti faccio lavare i pavimenti con la lingua. Anzi, guarda, inizia a prendere il Mastro Lindo”. Ogni serie ha bisogno dei propri LUOGHI riconoscibili. L’ascensore per alcuni, lo stanzino delle scope per altri. The Americans ha questa lavanderia al piano di sotto in cui succedono cose  tipo Elizabeth che finge di piegare sempre gli  stessi panni e intanto Philip gioca all’alfabeto morse con un sottomarino sovietico invisibile ai radar americani.

 

 

Nina

 

 

NINA SERGEEVNA – A furia di tripli giochi si finisce così. Pestata come una zampogna dagli amici tuoi, tradita da chiunque e pronta a rientrare alla Casa Madre per processi sommari in cui se ti va bene vieni buttata nel MAR MORTO con un pilone di cemento attaccato ai piedi. E non importa se prima hai dovuto stendere umilianti rapporti al KGB in cui ammettevi che sì, l’ho stimolato oralmente e gli ho permesso di penetrarmi in ogni dove, non importa se hai dovuto stringere le natiche durante la macchina della verità (!), non importa se l’unica cosa che volevi, forse, era non avere pensieri e andare a ballare. Hai scelto questa vita, ci devi stare. La scena dell’Addio di Nina Sergeevna vince il premio struggenza, la voce dell’attrice che interpreta Nina il premio SEXI MOSCOW 2013/2014.

 
2 Martha

 

 

MARTHA LA CESSA MA NON FESSA- “Ti amo, e farei qualunque cosa per te”. Mettiamo il caso che tu sia una spia e che nel tempo libero tu faccia raccolta di MOGLI FINTE: Martha, l’adorabile Martha è il meglio che possa capitarti. Una che non fa mai storie, che non si lamenta se scompari nel nulla per MESI, una che al mattino si presenta con quei bigodini, che pensa solo a mangiare uova fritte e bacon. Soprattutto, una che ne VUOLE SEMPRE E COMUNQUE. Che se inizia a farti un gioco di mano ma a te non ti tira che cinque minuti fa hai commesso omicidi plurimi a profusione, lei ti guarda con quegli occhietti a pompinello e ti chiede: “Cosa c’è darling? Vuoi che ci vada di bocca?”. Una che non si accorge mai di nulla, che pare cogliona ma poi ti spiazza così: “Caro, non devi nascondermi niente. Amo perfino il tuo parrucchino”. E tu che credevi di usare una COLLA PILIFERA invisibile. No Martha, No The Americans.

 

 

3 Replies to “Nel nome del Bene Superiore”

  1. ho bingiato e apprezzato serie e post. non sono d’accordissimo sulla mini-serie. per me andava benone così. sarà il mio debole per elizabeth o le parrucche.

  2. *Cidindon: durante il binge a un certo punto m’è parso, come dire, che avessero finito le parrucche di Elizabeth

  3. Io quei due là li becco sempre a inciuciare al bancone del bar. Da mesi.

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