Ho molti amici Jill Soloway

“Voglio ringraziarti, caro Jeff Bezos, perché hai cambiato il mondo, e mi hai invitato a fare questa cosa che questa gente chiama televisione, ma io chiamo rivoluzione”. Ma chi è dunque questa donna che è appena salita sul palco per ritirare il secondo Emmy consecutivo come miglior regista in una comedy? Si chiama Jill Soloway, è l’autrice di Transparent, una delle serie più acclamate del decennio, e io non la riconosco. Non assomiglia alla Jill Soloway che ho visto in decine di filmati e interviste. Non è solo l’aspetto fisico. È la postura, il tono di voce, il modo in cui dice le cose che dice. È, come dire, cambiata. Mentre fisso lo schermo della tv, mentre lei conclude il discorso di ringraziamento con un messaggio ripetuto ben due volte (“Topple the patriarchy! Topple the patriarchy!”), e io sorrido alla battuta di Jimmy Kimmel (“I’m trying to figure out if ‘topple the patriarchy’ is a good thing for me or not. I don’t think it is”), intuisco cosa sia successo. In un’America che ancora non sa che tra poco si sveglierà nell’ennesimo incubo (o sogno, a seconda dei punti di vista), la nuova Jill Soloway mi sta dicendo che proprio adesso, negli anni Dieci che stanno già finendo, dopo tutto il cinismo e le battute, forse è giunto (tornato?) il momento di chiamare le cose con il loro nome […]

Dall’autobiografia di Transparent al female gaze di I Love Dick, su Link. Idee per la televisione racconto le tappe del viaggio di  Jill Soloway alla ricerca della propria voce.

 

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