Eppure non vorrei che alla fine qualcuno mi prendesse troppo sul serio

‘Cause I’m just a soul whose intentions are good/ Oh Lord please don’t let me be misunderstood/Parararapararaaraaaaa
Quant’era? Un anno? Due anni? Bohm nemmeno me lo ricordo. Io che zompetto su una pista da ballo. Roba da non crederci. Eppur sì. Occasione speciale. Fine della manifestazione. Liberitutti. 17 giorni di bambini. Si beve, si fuma.You kow, quel panico sottile che ti assale un attimo dopo, quando hai già preso una decisione e indietro non si torna. Siamo una trentina, tutti in divisa. Sudati, alticci. I’ve heard it all before I don’t wanna hear, I don’t wanna know. Il passato si somma al passato, a quello che non avresti mai detto. E poi a saltare come i quattrenni facevano poche ore fa, tutti sullo scivolo e tutti sul tappetone gonfiabile, dammi la mano, dammi la mano, ti guardo e non ti riconosco, mi guardo e non mi riconosco. E’ che per ballare io devo essere veramente fatto -e oggi non lo sono, non del tutto, troppe mancanze, troppe privazioni, troppi interrogativi sulla pelle-, e così mi distraggo a guardare quanto sono ridicoli certi maschili singolari e in genere mi viene da spegnere la musica mentalmente e sorridere. Anche di me. You know, è tutto quello che non puoi determinare: a volte fa paura, a volte esalta. Non decido quindi non sono. Chiudi gli occhi, è facile, muoviti, assieme ai suonatori di samba. Donne sensuali. Uomini arrapati. Muoviti. E balla, e suda, suda. E fermati, un attimo, nel buio, in seconda fila. Osserva. Un ragazzone-bambinone piange. Il solito clima da ultimo giorno di scuola. A me non frega poi molto. Arrivano i vigili. Qualcuno, anche qui, in mezzo al deserto, anche qui, alle tre del mattino, ha osato lamentarsi. A casa, ma no, che dici. La crostata di Johnny è più buona del solito. O forse sono solo io che mangio vorace con le mani sporche di polvere e di sudore e mi lecco le dita, che non voglio pensare. You know, ti svegli una mattina e pensi che non ne puoi più di questo perenne disequilibrio, di questo perenne confondere letti e lavandini, di questo perenne organizzare spazi mentali e fisici. Ikea. Devo tornarci presto. Alle proiezioni del corto che abbiamo realizzato con i bambini c’è molta gente. La prima in piena alta marea pomeridiana, con l’audio che fa cagare e il sole ancora a rompere le scatole. Ma l’applauso scoppia spontaneo, anche da parte di chi non era parte in causa. Alla seconda, all’aperto, tipo cinema, con la frescura che ti mette a posto pensieri e capelli, tutti gli animatori e i capi e i bimbi protagonisti: il bimbo Manrico ad un certo punto mi chiede se sia il caso di fare anche gli autografi, e la bimba Lucia si commuove quando tutti bisbigliano “ma quanto è brava” e tutti sono lì, pronti al varco, che tutti hanno sempre qualcosa da ridire quando si tratta di cinema, chè tutti ne sanno un tot, e io farei così, e io farei colì, e invece non ne sa nessuno un cazzo di quel che vuol dire girare con dei bimbi allegri, avendo un’unica location -il bosco-, con una sola mdp, con un programma di montaggio che -eufemizzo- fa cagare. Eppure, eppure. Piace. I bimbi sono contenti, mi vengono a cercare, si divertono vedendosi. E i genitori, in questo caso consci e non questuanti di fama, ci ringraziano per aver fatto divertire i propri figli. Tanto mi basta. You know, e invece devi fartene una ragione, anche e soprattutto quando ti alzi dal letto già con la stanchezza, e ti tocca, ti tocca solamente, che là fuori nessuno ti aspetta. Tanto mi basta, mentre sollevo ancora polvere su polvere -i parchi, si sa- e me ne vado, senza salutare, chè tanto nessuno ha più orecchie per ascoltare.P.s. Vistochè, qualcuno ha un lavoro da offrirmi? Escluso lavapiatti, per cortesia. Da due giorni ho un fastidioso mal di gola e non vorrei peggiorasse.

 

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